La cultura è un ecosistema: parola di Art is Open Source
Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, duo esplosivo di artisti-ricercatori noti anche con il nome “Art is Open Source”, sono gli autori con un progetto che usa le nuove tecnologie per mappare e studiare i rapporti sociali e le produzioni culturali. Con un occhio a temi caldi come la privacy e i diritti digitali. Li abbiamo incontrati per farci raccontare il progetto Human Ecosystems.
Qualche settimana fa avete presentato a Roma il progetto ECm1, una “mappatura” digitale della cultura in città. Ma come si mappa “l’ecosistema culturale” di una città?
Immaginate di poter ascoltare la vita in tempo reale di un’intera città, o di un qualsiasi territorio di vostro interesse, catturando e analizzando i flussi di comunicazione georeferenziata generati dalle persone su Facebook, Twitter, Instagram, Google+ e tutti i principali social network. EC(m1) è un sistema in grado di raccogliere, analizzare e visualizzare le conversazioni in tempo reale che avvengono nel territorio di Roma in tema di cultura.
Praticamente, come funziona?
Proviamo a distinguere in fasi il processo per comprenderlo meglio: prima si delimita un territorio, poi si raccolgono i dati in tempo reale sui maggiori social network, in 29 lingue diverse. L’analisi multi-linguistica è fondamentale, si pensi che in una città come Roma si parlano circa 18 lingue ogni giorno, mostrando e descrivendo flussi e città differenti: una ricchezza enorme. Il passo successivo consiste nell’analisi di questi dati, realizzata usando tecniche di Natural Language Analysis, che permettono di ottenere risultati più avanzati rispetto all’analisi per parole chiave o hashtag, consentendo la comprensione del contesto linguistico, individuando lo stato emozionale e il tema trattato. Si applica poi una complessa tecnica di Network Analysis che permette di comprendere la geografia, la topografia umana e le relazioni che intercorrono all’interno dell’ecosistema. Infine, si visualizzano i dati attraverso rappresentazioni infoestetiche, rendendo l’informazione accessibile e usabile.
Il sistema genera tre rappresentazioni, tre “mappe informazionali” della città che rendono navigabile, consultabile e accessibile la gigantesca mole di informazione raccolta e analizzata: lo spazio della cultura, il tempo della cultura e le relazioni della cultura. Il risultato è un paesaggio di dati (infoscape) in continuo mutamento, che cambia e si evolve insieme alle nostre attività.
Come mai siete partiti dalla città di Roma?
L’Assessorato alla Cultura del 1° Municipio di Roma ha aperto le porte a una sperimentazione sulla città che in realtà per noi dura già da cinque anni: l’idea di Ecosistemi Umani (il progetto Human Ecosystems) che è alla base di EC(m1) ne è l’evoluzione più recente. Questo progetto si interroga infine su come attivare processi e strategie che consentano l’uso e l’appropriazione dei dati da parte dei cittadini e della società civile. Si tratta di un meccanismo delicato in cui i dati fanno un passaggio di qualità trasformandosi in informazione, conoscenza e nella fase finale in consapevolezza. È un punto centrale per EC(m1) e per tutta la prospettiva indagata in Human Ecosystems: in questa direzione i dati e le informazioni, semplici e aggregati, vengono rilasciati sotto forma di Open Data. Un nuovo commons digitale a disposizione di tutti gli attori dell’Ecosistema, pubblici e privati.
Raccogliendo dati e incrociandoli spesso vengono fuori informazioni inaspettate. Cosa avete scoperto durante il processo di costruzione di questo progetto?
Il sistema raccoglie i dati in forma limitata a partire dal 2011: a regime la cattura avviene in tempo reale, ed è questa la sua caratteristica principale. La ricerca (parziale) nel passato ci ha consentito di individuare circa 2.000.000 di cittadini e turisti e 7.000 operatori che si sono espressi in tema di cultura. Per tornare alla tua domanda, da questa prima osservazione la maggior parte degli operatori (86%), non fa comunicazione collaborativa o sinergica con altri operatori, il 34% lavora da solo o collaborando con massimo 1 o 2 operatori (25%). Allo stesso tempo, sono presenti nicchie perfettamente distinguibili di soggetti in grado di vestire il ruolo di bridge (ponti), ovvero tali da esprimere nella loro quotidianità un interesse elevato per un alto numero di operatori e di pubblici differenti e, quindi, di costituire facilmente ponti naturali tra le diverse comunità. È in realtà quest’ultimo genere di osservazioni il più prezioso. Il dato “statistico” è l’aspetto meno rilevante ai fini della sperimentazione. EC(m1) è essenzialmente uno strumento di auto-osservazione antropologica, che muta e si evolve insieme alle attività quotidiane delle persone. Un tool pensato per affrontare la complessità, uno spazio vivo, attraverso il quale in modo attivo le persone possono comprendere la complessità del sistema di relazioni in cui sono immerse, imparare a posizionare se stesse nell’ecosistema che contribuiscono a produrre, a interagire in a con esso in modi nuovi.
In sintesi, scoprire e comprendere la geografia umana e relazionale del proprio territorio per come emerge attraverso le nostre interazioni.
In che modo le pubbliche amministrazioni possono servirsi di strumenti come quelli che state studiando?
Vi è innanzitutto la conoscenza del territorio: i luoghi, tempi e modi della cultura. Dove si fa cultura. Quali sono i pubblici. Chi sono gli attori. Come e quando ci si sposta per la fruizione. Come sono fatte le comunità: si intersecano? Si incrociano? Sono isolate? Sono interconnesse? Sono sempre le stesse? Sono nicchie? Da dove ci si sposta per partecipare alle iniziative? Quando ci si sposta? Le iniziative sono tutte insieme? Sono accentrate nei luoghi o nei tempi? Collaborano? Comunicano? Si fanno concorrenza? Si sostengono a vicenda?
Ci sono infinite domande a cui si può pensar di dare risposta, e che sono di fondamentale importanza per comprendere la vita culturale della città: per creare nuove opportunità, nuove relazioni, nuove possibilità. Per pianificare quanto per sistematizzare. E per lasciare emergere le domande che ancora non conosciamo: quelle che derivano dall’osservazione antropologica della cultura di un territorio, in tutta la sua complessità e diversità.
Per arrivare a un cambio sostanziale di prospettiva: imparare ad agire in modo ecosistemico. Ciò vale per le amministrazioni, gli operatori e ogni singolo nodo dell’ecosistema.
Quali sono le criticità che emergono dall’osservazione dei dati?
Dalle visualizzazioni e dai dati emerge la struttura relazionale emergente del discorso culturale di un territorio. Questa è una ricchezza incredibile. Perché mostra con chiarezza immediata che il tessuto interconnettivo della cultura è composto dalle persone, dai cittadini, di tutti i tipi. E che la “vita” della cultura è nelle loro mani. Le persone producono cultura rendendola viva nelle loro discussioni, con i loro spostamenti, con la loro partecipazione attiva e desiderante. Sono un sistema nervoso in cui gli operatori sono gli emettitori degli stimoli. E in cui, quando questi stimoli non producono nuove interconnessioni, relazioni e interazioni, interviene la sclerosi: la malattia dell’ecosistema. Dall’osservazione dell’ecosistema emerge però anche come troppi operatori non stabiliscano rapporti sul territorio, veri, vivi e discorsivi. Molti eventi, progetti e iniziative sono come un battito di mani: avvengono, ma non lasciano traccia, non creano nuove sinapsi, non connettono comunità, non stimolano dibattito. In sintesi: sono un’eccitazione effimera e vanesia dell’ecosistema, e non ne promuovono il benessere.
Come si promuove il benessere dell’ecosistema culturale?
Questa è una domanda a cui possiamo iniziare a rispondere adottando un punto di vista completamente nuovo, in cui tutti (operatori e cittadini) sono coinvolti, attivi e valorizzati, e in cui le amministrazioni pubbliche svolgono funzioni di osservazione, valutazione, interconnessione, abilitazione, certificazione, pianificazione, sistematizzazione, impostazione metodologica, e, soprattutto, promozione ecosistemica.
Spesso avete parlato della rete come di un nuovo “spazio pubblico”. In che modo questo spazio si differenzia dallo spazio pubblico tradizionalmente inteso (quello fisico della piazze, per esempio)?
Questo è un nodo centrale della discussione. Nella percezione delle persone, spazi come Facebook, Twitter (e in generale i social network) sono pubblici: in realtà si tratta di spazi privati (gestiti da soggetti privati). Mantenendo il parallelo con lo spazio analogico, Facebook è più un centro commerciale che una piazza: spazi progettati e disegnati per essere percepiti come pubblici (dall’ingresso gratuito, alle panchine alle piazze interne disegnate per la socializzazione e il passaggio), ma che in realtà non lo sono. Si tratta di luoghi molto codificati all’interno dei quali ci son leggi e convenzioni differenti da quelle di una piazza o di un qualsiasi spazio pubblico: possiamo essere ripresi da telecamere, essere oggetto di pubblicità commerciale, o buttati fuori dalla security. In questo è attualissimo il lavoro dei Critical Art Ensemble in cui il semplice costruire una pista per automobiline dentro un supermercato ha l’effetto di essere cacciati violentemente dallo spazio: a Piazza Navona o Villa Pamphili succederebbe?
Su Facebook o Twitter è esattamente la stessa cosa, siamo soggetti a leggi e convenzioni private che accettiamo firmando i terms of service. Ma la situazione è ancora più complessa. Se i nostri dati e comportamenti sono oggetto di analisi, transazioni e scambi, i terms of service possono essere cambiati dai gestori delle piattaforma senza il nostro consenso e senza passare attraverso un processo pubblico di validazione e contrattazione. Ogni volta che queste modifiche avvengono, ciò influisce sui nostri diritti si privacy, su ciò che è pubblico e privato, anche secondo legge: in modo silenzioso e trasparente ogni giorno si riscrivono i nostri diritti costituzionali. Tutto questo perché l’infrastruttura (percepita, usata e vissuta come) pubblica è completamente gestita da soggetti privati: una situazione unica nella storia dell’umanità.
Dopo il debutto romano, il progetto si sta estendendo su scala nazionale. Ce ne parlate? Quali sono i prossimi step?
A Internet Festival, a Pisa, abbiamo appena presentato Innovation Ecology, l’ecosistema in tempo reale dell’innovazione in Italia. Stiamo procedendo speditamente, ma dietro questa velocità di azione c’è non solo un lavoro di anni alla spalle, ma anche una precisa strategia maturata nella nostra recente esperienza statunitense con l’Eisenhower Fellowship. Fra marzo e maggio scorso siamo entrati in contatto con istituzioni, centri di ricerca e organizzazioni fra cui la Kauffman Foundation, il MIT, Harvard, l’Office for Science and Technology della Casa Bianca e da questi confronti un’idea è emersa come un landmark fondamentale: l’opportunità strategica di realizzare punti di osservazione antropologica su base cittadina e territoriale per dare vita nuove forme di “osservatorio ecosistemico” basate sullo studio e l’analisi dei network relazionali e delle topografie umane. Con l’obiettivo di comprendere i fenomeni analizzati nella loro complessità antropologica e attraverso strumenti totalmente inediti – per le policy, la governance, la creazione di nuovi modelli di business, di interazione e relazione – a partire dalla possibilità di osservare e posizionare se stessi nell’ecosistema.
EC(m1) e Innovation Ecology sono due passi concreti verso la realizzazione di uno scenario su cui stiamo lavorando a livello internazionale nell’ottica di comparare territori, culture e contesti differenti. Per una volta partiamo dall’Italia: l’esperimento di Roma ha una rilevanza particolare, è da qui che come primo passo, vogliamo elaborare metodologie, modelli e strutture replicabili. A breve ci saranno ulteriori incontri e workshop dedicati, con l’obiettivo di passare all’uso e all’appropriazione della piattaforma da parte di associazioni, operatori, singoli cittadini e amministrazione. Il tutto in un’ottica di co-evoluzione del progetto e della piattaforma e di discussione aperta e condivisa degli obiettivi e dell’impianto teorico e filosofico della prospettiva ecosistemica. Stiamo investendo una grande energia per coinvolgere nel processo non solo gli operatori culturali e gli amministratori locali, ma anche accademici e ricercatori a cavallo fra l’Europa, gli Stati Uniti (e diversi altri Paesi), per ragionare insieme in questa direzione.
Valentina Tanni
http://artisopensource.net/emc1/viz/
http://www.artisopensource.net/projects/human-ecosystems.html
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati