La dolce Apocalisse
Ci sono momenti, nel cinema e nella cultura in generale, durante i quali il tema apocalittico diventa “di moda”: dunque appetibile, qualcosa non solo da non rifiutare, ma da avvicinare, da corteggiare, da sognare. È stato così negli Anni Cinquanta, così come tra Settanta e Ottanta: ogni volta secondo declinazioni diverse e approcci coerenti con lo spirito del tempo, secondo scenari simbolici che vanno dall’olocausto atomico all’invasione di zombie all’estinzione del genere umano per pura e semplice consunzione.
Questa è decisamente una di quelle fasi in cui il tema apocalittico è “di moda”. Almeno dal 2006, nel mainstream può capitare di riconoscere improvvisamente un’apocalisse più familiare, per così dire, più confortevole e “rassicurante”, contrapposta a una versione che invece non ha paura degli aspetti più radicali della fine della – di una – civiltà.
Pacific Rim (Guillermo Del Toro 2013) appartiene chiaramente alla prima tipologia. Disegna un’apocalisse attentamente progettata, curatissima, in cui persino i dettagli sporchi e usurati dei megarobot e delle tute dei loro piloti sono attentamente predisposti. In cui tutto è previsto e prevedibile, e proprio per questo noi spettatori possiamo sprofondare nelle nostre poltrone a goderci le epiche lotte tra i colossali Jaeger e i mostruosi Kaiju, e sprofondare mentalmente nei ricordi della nostra infanzia che queste scene straordinariamente definite e visivamente efficacissime evocano esplicitamente.
La struttura narrativa di Pacific Rim ricalca infatti consapevolmente quella di innumerevoli manga giapponesi degli ultimi quarant’anni: è la prevedibilità del mito e della mitografia, in cui una storia viene scritta e riscritta da mani pressoché anonime. Così, noi sappiamo esattamente come andrà a finire anche perché ci sono Jax di Sons of Anarchy (Charlie Hunnam) e Stringer Bell di The Wire (Idris Elba) a tenerci saldamente ancorati all’universo finzionale, all’evasione e all’emozione spettacolare targata inizio del XXI secolo: per quanto questi combattimenti, queste esplosioni, queste immersioni sembrino reali, mai per un istante scambiamo tutto ciò che vediamo per qualcosa di vero.
Anche World War Z, basato sul romanzo omonimo di Max Brooks, si poggia su una struttura di racconto ipersperimentata, un modulo collaudato: la zombie-apocalypse, appunto. Ma – sin dall’inizio, sin dalla scena dell’ingorgo e della fuga per le strade di Philadelphia – il gioco molto serio di Marc Forster è quello di scaraventarci nella sensazione di vivere un’epidemia di non-morti, più che nel mostrare le conseguenze apparenti di questa epidemia. L’aspetto di massa, totalmente disumanizzato e disumanizzante degli zombie ci spinge verso la totale identificazione con i viventi, con gli umani, costantemente contrapposti a queste fiumane di morte.
La vita è identificata, nelle parole del protagonista Gerry Lane (Brad Pitt), con il movimento costante: “Bisogna muoversi se si vuole sopravvivere. Movimiento es vida”. E il virologo di Harvard, il Dr. Andrew Fassbach (Elyes Gabel), gli dirà: “Quello che sembra l’aspetto più mortale del virus nasconde quasi sempre il suo punto debole”. Così, WWZ assume davvero l’aspetto di una versione globalizzata e contemporanea di Dawn of the Dead (George A. Romero 1978), e lo fa proprio adoperando strumenti diametralmente opposti a quelli del modello: l’apertura esponenziale degli spazi contro la perimetrazione claustrofobica e concentrazionaria del mall, l’assedio al fortino contro il conflitto orizzontale e lo spostamento continuo del fronte. L’annullamento continuo del fronte, e dell’idea stessa del fronte.
Rimane la radice, la critica sociale. Prendiamo la scena finale della camminata di Gerry nel corridoio verso gli zombie, dopo essersi inoculato una malattia mortale: rispetto agli standard del cinema zombie degli ultimi trent’anni, e per i significati simbolici di cui è caricata, è davvero… rivoluzionaria. Bisogna inocularsi una parte di morte, di dolore, di oscurità per arrivare davvero dall’altra parte e vincere. Questo attraversamento avviene sempre, obbligatoriamente, nel buio: è fatto di rischio. Se non si esplora e non si conosce questa zona oscura di noi stessi, della nostra vita, della realtà si rimane vittime, prigionieri degli schemi soliti (“i vivi” / “i morti”).
Se si rimane immobili – se ci si ferma – si è già finiti.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #15
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati