L’ideologia del protagonista
Ultime ore per vedere la Biennale di Venezia edizione 2013. Dopo il contributo in chiusura di Giovanni Lista, l'intervento di Tiziano Scarpa, a ideale quadratura del cerchio. Era infatti stato proprio Scarpa ad aprire la serie di interventi pubblicati da Artribune durante i giorni della preview.
Sono morte le ideologie, hanno trionfato le storie. Che sono ideologie mascherate. Ma se questo è vero, in che cosa consiste il nucleo ideologico delle storie? Perché una narrazione dovrebbe essere di per sé ideologica? Non sto parlando delle narrazioni palesemente false, manipolatorie, ma di tutte le storie. Perché una narrazione è ideologica, anche quando è accurata e in buona fede?
Ci pensavo in questi giorni; tutte le cose che mi succedevano intorno sembrava che mi parlassero, dicendomi la stessa cosa.
L’ideologia della narrazione prevede una gerarchia tra la figura e lo sfondo. Contano solo i personaggi. L’ambiente in cui si muovono è un pretesto per allestire le loro faccende.
Elmore Leonard, scrittore di noir, nel suo decalogo per scrivere buona narrativa ha messo al primo posto il divieto di parlare del tempo che fa: “1. Mai iniziare un libro parlando del tempo. Se è solo per creare atmosfera, e non una reazione del personaggio alle condizioni climatiche, non andrai molto lontano. Il lettore è pronto a saltare le pagine per cercare le persone“.
Il lettore è pronto a saltare le pagine per cercare le persone. L’ideologia della narrazione addestra i lettori a saltare lo sfondo per cercare le figure.
Dopo l’alluvione in Sardegna, mi sono chiesto: che cos’è stata la Sardegna, per me, in questi ultimi mesi? Che notizie mi interessavano, quando leggevo di cose sarde? Di recente avevo seguito la narrazione dell’avvicinamento alle elezioni regionali che si terranno nel 2014. Avevo seguito anche le vicende del Teatro Lirico di Cagliari, le contestazioni al sindaco Zedda. Saltavo lo sfondo, cercavo le persone, le figure. Dopo l’alluvione dei giorni scorsi, ho letto la denuncia di Ettore Crobu, Presidente della Federazione Regionale dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali della Sardegna: “Il problema del degrado e degli eventi alluvionali che spesso comportano perdita di vite umane, come è avvenuto in questi ultimi anni e giorni, è sostanzialmente dovuto all’uso irrazionale del suolo e all’inadeguato governo del territorio. Le recenti politiche comunitarie adottate nel campo agricolo stanno portando ad un impoverimento delle aziende agricole ed un progressivo abbandono delle campagne“.
Nel saggio Applauso, contenuto in Forme contemporanee del totalitarismo, Davide Tarizzo sostiene che i grandi cataclismi (cita gli tsunami e l’uragano di New Orleans) mettono alla prova lo Spettacolo: “un cataclisma naturale non ha volto. È uno schianto col reale, che disgrega il nostro sguardo, che spegne il nostro applauso, che arresta ogni risata […] È in occasioni come queste che lo Spettacolo dispiega tutto il proprio potenziale, cercando di dare un senso al non-senso del reale, cercando cioè di trasformare il non-senso del reale in un assenso allo Spettacolo. Ma come farlo? […] Per esempio, costruendo e rilanciando scenari di finzione incentrati su azioni eroiche, che strappano l’applauso […] Si tratta di tessere una trama, una storia incentrata sulla persona dell’eroe, che alla fine storni lo sguardo dal non-senso del reale e ci riconduca all’assenso puro, all’applauso senza condizioni“.
Questi tipi di storie sono al servizio dell’ideologia del consenso (o dell’assenso, come lo chiama Tarizzo, con maggiore pertinenza), sono dispositivi che, nel prevedere obbligatoriamente trame, eroi, protagonisti, modellano lo sguardo, lo concentrano su una figura.
Qualche giorno fa Maria Gianola e io abbiamo fatto un incontro alla biblioteca Querini, a Venezia, di fronte a tanti bambini (sto mettendo insieme fatti enormi e fatti minuscoli, lo so, ma, come dicevo, ci sono momenti in cui la vita sembra dirti la stessa cosa in forme diverse, da diversi fronti). La lettura scenica della nostra favola è durata una mezz’ora, poi ci siamo trasferiti in una stanza a colorare, ritagliare e incollare. Maria (che ha fatto Laguna l’invidiosa insieme a me, illustrando il libro) ha avuto l’idea di far costruire ai bambini un teatrino, molto semplice da realizzare. Ha distribuito un foglio bianco con i personaggi da ritagliare: sole, luna, casa, pompiere del ghiaccio. Ma la protagonista, la laguna, era disegnata su un altro foglio, di celeste intenso. Era la carta con cui costruire il teatro. La protagonista coincideva con la scenografia.
Nella nostra piccola favola succede proprio questo. Si rovescia la gerarchia tra figura e sfondo. I dintorni diventano personaggi: il sole, la luna, l’acqua, il freddo, la città. La laguna. L’ambiente diventa protagonista.
Quando l’ho scritta non lo avevo premeditato lucidamente. Senza chiamare in causa ispirazioni e mistiche intuizioni, direi che questa storia è stata semplicemente il frutto dell’abitudine. A Venezia abbiamo una familiarità con lo sfondo. L’acqua alta è proprio questo: il nostro sfondo acqueo –che diamo per scontato ambientandoci le nostre faccende da protagonisti– si fa sentire spesso, si mette in primo piano. La laguna torna di frequente a chiederci il conto per aver interrato zone industriali e scavato le bocche di porto, le soglie fra mare e laguna: servivano fondali sempre più capienti per le navi che rifornivano le industrie; ma gli scavi hanno innescato l’autoerosione, cosicché oggi, la bocca di porto di Malamocco arriva a –57 metri. È il punto più profondo dell’Adriatico!
Dov’è che la scenografia diventa protagonista? Più che a teatro, direi che sono le arti visive ad aver praticato questo valore.
Ho visitato ancora la Biennale, in questi giorni. Nel padiglione cileno, Alfredo Jaar mostra la consapevolezza autoironica, ma anche, se così si può dire, autotragica dello sfondo, che gli artisti conoscono molto bene. La sua opera è un plastico dei padiglioni dei Giardini, cioè la Biennale stessa, che viene sommersa ritmicamente dall’acqua alta, con un meccanismo nascosto. Per la precisione, è il paesaggio a riemergere e sprofondarsi da sé, tornando in superficie e poi scomparendo in acqua.
L’arte contemporanea sembra essere una zona ancora abbastanza libera dall’ideologia della narrazione. Non ha l’ansia di saltare le pagine alla ricerca delle persone. Si prende il suo tempo. Dilata i ritmi. Istiga alla contemplazione. L’artista islandese Ragnar Kjartansson ha teorizzato per le sue opere il “tedio divino”, un punto di vista innalzato, dislocato dalla narratività umana. Alla Biennale è presente con una performance dal vivo: una barca dei mari del Nord fa sempre lo stesso percorso, avanti e indietro, fra le monumentali architetture in disarmo dell’Arsenale. A bordo della barca, un piccolo gruppo di suonatori di ottoni esegue sempre la stessa musica. La ripetizione trasforma l’evento eccezionale in un’abitudine, in uno sfondo.
L’arte contemporanea riesce a delocalizzare l’attenzione, non la focalizza soltanto sulle figure. Ribalta le gerarchie tra figura e sfondo, le mette in discussione. Soprattutto nelle installazioni e nei video, ma non solo.
Nel padiglione britannico di Jeremy Deller, ci sono le belle foto di un tour di David Bowie del 1972, mescolate alle rivolte di piazza di quei mesi: studenti per le strade, scoppi di lacrimogeni, spari, nuvole di polvere e fumo, gente che scappa, che tenta di abbattere una recinzione, facce del pubblico in delirio, trucchi glam che per contagio si propagano dalla faccia di Bowie a quelle dei fan, ai piedi di palchi brulli, dove la rockstar canta in mutande, senza fantasmagorie luminose: sfondo e figura si scambiano di posto, i concerti del divo sono un’increspatura, la punta di un’ondina in un mare sociale in subbuglio.
Nel padiglione danese di Jesper Just, le persone che camminano o che vanno in moto sono dei pretesti per attraversare un paesaggio. Si vedono i palazzi haussmanniani dell’epoca di Napoleone III, la Tour Eiffel. Eppure a pochi metri ci sono ampie zone sterrate, mucchi di calcinacci confinano con i marciapiedi eleganti e deserti, panni stesi sulle facciate signorili trasgrediscono i regolamenti urbani, i muri sono incrostati da decine di ideogrammi.
Che Parigi è mai questa? È la periferia di Hanzhou, in Cina, “costruita come una replica della capitale francese, ancora disabitata, in cui la fase di edificazione coincide con quella di decadimento”, spiegano i curatori del padiglione.
Nel padiglione francese, Ravel Unravel di Anri Sala, si vede l’esecuzione del Concerto per la mano sinistra, che Maurice Ravel scrisse per Paul Wittgenstein, mutilato per una ferita di guerra. Due grandissimi schermi, due pianisti: l’inquadratura mostra solo la mano che suona. Le due esecuzioni dello stesso concerto vengono proiettate sincronicamente, cosicché si possono vedere e ascoltare le piccole sfasature fra le esecuzioni dei due suonatori.
Si sente l’orchestra, ma non si vede. Quindi, semmai, questa è una sopravvalutazione della figura, una cancellazione dello sfondo: narrazione al suo grado più puro. E invece, seguendo quelle mani sinistre che zampettano sulle due tastiere come crostacei frenetici, che cercano di sopperire alla mancanza delle mani destre, in un disperato sforzo di arginare le falle musicali, ho pensato proprio all’inermità della figura di fronte allo sfondo. C’è stata una guerra, il pianista ha perso una mano, la massa di strumenti non smette di effondere il proprio pieno orchestrale, un’alluvione di note travolge il solista, ma la sua mano superstite continua ad affannarsi per contrastarla, per far sentire la sua presenza, la sua affermazione musicale. Riesce a interagire con tutto quello che la circonda, fa quello che può, e lo fa egregiamente. Affronta i suoi dintorni, il volume di suono orchestrale. La dismisura di potenza tra figura e sfondo non produce una resa.
Anche l’esibizione istituzionale, Il Palazzo Enciclopedico, curata da Massimiliano Gioni (mostra memorabile, la migliore Biennale da molti anni a questa parte, decisamente più interessante dell’ultima Documenta), mette in chiaro il rapporto critico tra figura e sfondo nella sua versione esistenziale: che esperienza può fare l’individuo della totalità? Come può una vita singola affrontare l’enormità di occasioni tentazioni divagazioni che le propone la nostra epoca? Di che cosa si può fare veramente esperienza? Le persone sono condannate a saltare di palo in frasca, nella frammentazione intermittente, o possono attraversare la vita seguendo una rotta individuale che riesce ad abbracciare tutto il paesaggio, senza dissipare il loro tempo, senza perdersi in un inconcludente e perenne piccolo cabotaggio?
Mi sembra che l’arte suggerisca una soluzione o, almeno, una possibilità: l’opera. Essere fedeli a un’opera. Realizzare un progetto. Perfezionarlo, migliorarlo, ricominciarlo da capo, rifarlo innumerevoli volte. Anche a costo di trasformarlo in una fissazione, una coazione a ripetere, una patologia. Molti artisti messi in mostra da Gioni sono in realtà dei casi clinici, la cui sintomatologia si esprimeva con un linguaggio artistico. È quello che gli è stato rimproverato in questi mesi: aver riportato la figura dell’artista al vecchio cliché del mattoide. Non è questo il punto. Il punto è che l’opera è una delle risorse che abbiamo ancora a disposizione. Un dispositivo che la tradizione ci consegna per affrontare scenari del tutto nuovi. L’opera è la versione individuale della totalità, è la soglia aperta sul tutto, l’esperienza complessiva a portata di singola esistenza. È la figura fatta di sfondo.
Tiziana Scarpa
(Riflessioni su questi temi le aveva già fatte, molto meglio di me, Carla Benedetti in Disumane lettere, nel primo capitolo “dove si guarda il cielo e si scopre che non è un fondale. Dove si cercano antidoti all’astrazione di tante narrazioni odierne che separano le storie degli uomini dal ‘profondo abisso del mondo’”. Carla Benedetti trova questi antidoti in Gadda, Moresco, Chinua Achebe.)
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