Luca Trevisani. Intervista per l’esordio alla regia
Oggi 9 novembre 2013, presso gli spazi del Maxxi di Roma, andrà in scena la prima mondiale di “Glaucocamaleo”, il primo lungometraggio di Luca Trevisani, che aprirà anche il Festival Internazionale del Film di Roma 2013. Per questa occasione abbiamo conversato con l’artista e regista, cercando di scandagliare l’anima di un progetto densissimo, che ha visto Trevisani e la sua troupe spostarsi tra Italia, Europa e Stati Uniti, inseguendo il sottile racconto della materia e delle sue trasformazioni.
Come si è sviluppata l’idea di realizzare il film? Com’è nata la necessità di confrontarsi con una produzione più complessa e articolata quale quella cinematografica?
È da tanto che il cinema mi appassiona e nutre le mie idee. L’immaginario cinematografico è uno dei più potenti, se non sani, che ci rimangono. Da qualche tempo realizzavo video e videoinstallazioni con una troupe cinematografica, piccola fin che vuoi, ma cinematografica. Il seme andava solo fatto crescere. Il dado era tratto, da tempo, aspettava l’occasione giusta per palesarsi.
È stato per te difficile entrare nelle dinamiche produttive del cinema? Quali sono stati i punti più complessi nel dar forma a Glaucocamaleo?
È stato molto stimolante, e salutare. Posso equiparare la fatica e la mole di lavoro a quella di una retrospettiva che riguarda qualche anno di lavoro, la cui preparazione e ideazione va condensata in pochi mesi. Hai presente le scuole in cui si fanno quattro anni in uno e si prendono laurea e diploma nello stesso giorno? Ecco, una cosa del genere. È stato uno sforzo produttivo molto grande, come un polipo schizzofrenico con molti tentacoli e altrettanti cervelli, e qui ripenso a Hokusai…
Ecco appunto, film si apre con la riproduzione di una bellissima stampa giapponese che mostra un’elefante circondato da ciechi. La metafora, se ricordo bene, spiegava anche il titolo del film di Gus Van Sant Elephant. Tu che valore gli attribuisci? Perché le dai fuoco?
Come ogni vero realista credo nei sensi, e proprio perchè mi affido a loro sono il primo a metterli in discussione. È un ragionamento sui limiti del sé, sulla soggettività, su ciò che è arbitrario. L’immagine brucia perchè il film è una scultura termica che celebra i passaggi di stato, il mutamento, e lo fa lavorando con gli strumenti di un alchimista pasticcione. Il fuoco, l’acqua… tutta la tavola periodica è saccheggiata in libertà, è da li che vengono quasi tutti gli attori.
Come spesso accade nel tuo lavoro, la materia appare in continuo stato di trasformazione: tra reminiscenze naturali e imitazione artificiali s’innesca il senso delle tue opere, nel film come hai fatto a restituire tale rapporto?
Gli ingredienti sono essenziali, e per questo la loro scelta è primaria. Questa volta gli elementi sono molti, e provengono da diversi piani. C’è la scelta delle persone con cui lavorare, degli attori umani, di quelli animali, e di quelli inorganici, come le location. Tutto è iniziato dalle location. Potrei dire che Glaucocamaleo è anche un’agenda di viaggio. Un documentario di fantascienza che parla del futuro che ci stiamo costruendo, e lo fa scegliendo luoghi che permettono di farlo. La location è per il film come il correlativo oggettivo di Thomas Eliot.
In molte sequenze la materia va in frantumi, viene aggredita da forze visibili e invisibili, c’è una simbologia specifica che dai a questi momenti? Cosa rappresentano nella drammaturgia del tuo film?
Credo sia chiarificatrice l’idea di pluralità associata a quella di assottigliamento dei confini tra entità ed elementi differenti. La mutazione, a tutti gli effetti, non corrisponde a un continuum organico, ma è esplosiva. Dai tempi dei greci e dei latini, la statuaria serviva per esorcizzare la natura effimera delle cose, cioè la morte stessa. Glaucocamaleo è un film che, all’opposto, celebra la mutevolezza e l’erosione dei confini tra le cose.
Al di là della tua poetica riflessa nelle sequenze del film, quali sono stati i modelli cinematografici che ti hanno ispirato? Ci sono riferimenti precisi ad altre esperienze, altri registi?
Sono molti gli amori a cui ho attinto. Sarò sempre grato a chi mi ha fatto conoscere Nicolas Roeg, ho pensato molto al suo montaggio, alla sua fiducia nelle immagini.
Anche Glaucocamaleo propone un certo grado di astrazione, ma forse diversamente dai tuoi precedenti lavori video qui lo spazio, i luoghi, assumono un ruolo più centrale: è il cinema che ti spinge a “misurare” maggiormente lo spazio?
A dire il vero è quasi l’opposto. Indagare lo spazio e il paesaggio è un modo per costruirlo. Ho deciso di usare la macchina da presa per farlo, piuttosto che allestire uno spazio fisico, perchè lo spazio mentale, se tutto va per il verso giusto, ti rimane impresso mille volte di più. Walkabout di Roeg e Gerry di Van Sant non abbandonano facilmente chi li vede, sei d’accordo?
Assolutamente sì: entrambi i film vivono nell’immaginario come sistemi spaziali autonomi, e possono essere percorsi come loop visivi. A questo proposito mentre guardavo il tuo film ho avuto la sensazione che potesse rimanere integro anche guardandolo al contrario…
Quello che dici mi rende felice. Da piccolo confondevo scenografia e sceneggiatura, quando vedevo i titoli di un film. Non capivo chi decideva gli spazi e chi la storia. Con una battuta posso dirti che, forse avevo le idee già chiare seppure nella confusione. Se il film diventa un luogo in cui ti senti libero di muoverti e di collegare i punti, anche andando avanti e indietro a piacimento, allora sono felice.
Com’è nata l’idea di coinvolgere Kary Mullis nel tuo progetto? Da cosa si è sviluppata questa affinità? Perché hai sentito l’esigenza della sua voce?
Glaucocamelo celebra la curiosità. È figlio di uno sguardo affamato. Ho sempre pensato che la voce narrante doveva essere quella di uno spirito irrequieto, irrispettoso dei limiti imposti dai ruoli, come ogni vero curioso. Sarebbe potuto essere Walter Bonatti, ma poi ci ha lasciati. Sarebbe stata di certo una scelta più “zen” ma la sostanza non cambiava.
Kary Mullis è per me l’emblema del prometeo contemporaneo, vitale e inspirante, la sua autobiografia è stata una lettura molto importante. Volevo un chimico, qualcuno che incarnasse l’operaio specializzato Libertino Faussone de La chiave a stella di Primo Levi. Volevo un chimico contemporaneo, mi spiego: non uno scienziato col camice, ma una figura che incarnasse l’ideale di chimico. Non si tratta solo di un mestiere esercitato, ma anche di una formazione esistenziale. Sai che oltre a Primo Levi, anche Italo Svevo lavorava come chimico in un’azienda di colori?
Sì, ricordo di averlo appreso durante una lezione di Tommaso Trini, credo ne parlò in riferimento a Yves Klein. A proposito di istruzione, di riferimenti, mi fa riflettere come entrambi, nati nello stesso anno ma senza conoscerci, condividiamo la stessa venerazione per la biografia di Mullis Ballando Nudi Nel Campo della Mente: tu come lo hai scoperto?
A dire il vero, come molte scoperte, è accaduto tutto per caso. Stavo per prendere un treno, e memore di un consiglio dell’amico che stavo per raggiungere, ho preso il libro dallo scaffale. È merito di Francesco.
Uno dei protagonisti di Glaucocamaleo è il serpente che vediamo strisciare su diverse superfici. Oltre ad essere affascinato dalla forma, dai pattern delle sue squame, attribuisci un significato simbolico, ermetico alla sua presenza?
Il film parla dell’uomo, e lo mette in relazione alle forze che condivide nel mondo che abita. L’uomo è sopravvalutato. Glaucocamaleo lo celebra, relativizzando il suo peso. Forse è tutta colpa di Jung. I serpenti sono l’emblema della fluidità espressiva e contenutistica del film. Una volta vuotati dal retaggio cattolico che c’è, li presenta come malvagi e infidi. Sono animali a sangue freddo, eleganti e silenziosi, sono, essenzialmente, l’altro da noi. Il serpente nella zoomitologia giapponese, in particolare nello shintoismo, è sinonimo di saggezza.
Eustochio di Alessandria racconta che un serpente strisciò sotto il letto di Plotino, e sgusciò via in un buco nel muro; nello stesso istante Plotino morì… Quando ho visto il film ho pensato proprio al serpente come metafora di questa materia ed energia in perenne trasformazione, così come sembra sempre suggerire il tuo lavoro…
Il serpente è un’immagine archetipica. Possiede un potere simbolico molto forte, che ho usato per costruire il mondo della seconda parte del film: un mondo che cerca un suo equilibrio, e dove l’uomo è antiquato. Il serpente è anche simbolo di rinascita, a causa della sua muta di pelle, nel cambiarla marca il tempo che passa, è un orologio biologico, e il concetto di tempo, di divenire, è parte centrale del film.
Quali aspettative nutri dalla possibilità di esporre il tuo lavoro a un pubblico più vasto attraverso il cinema, credi che la platea dei festival sia pronto per una lettura più profonda come quella che proponi?
Non è davvero un problema, o un argomento. È un dato di fatto che il cinema e la musica vengono avvicinati e consumati senza paure, senza che il fruitore senta il bisogno di fornirsi di sovrastrutture o preparazioni pregresse. C’è molto più libertà, e gioia. Come davanti a un dipinto, ognuno si sente libero di viverlo, goderne, e di dire quello che pensa. È un grande rischio, ma anche una grande festa. Come per lo Zarathustra di Nietzsche, è davvero per tutti e per nessuno. Come in ogni incontro al buio c’è una tensione altissima, ma finalmente vitalistica.
Prevedi di tornare presto a progettare in termini cinematografici?
Sì, a dire il vero sto già iniziando il lavoro di ricerca per un nuovo progetto. Questo film è nato come una piccola cosa, e pian piano ha cambiato forma, formato, narrazione. Ora voglio iniziare una nuova avventura, facendo tesoro dell’esperienza che abbiamo accumulato.
Riccardo Conti
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