Ora basta col petrolio
La competizione per la Capitale Europea della Cultura 2019 sta entrando nel vivo, e non soltanto perché si è concluso il lavoro di preparazione dei dossier da parte dei candidati, ma anche perché i media nazionali e locali danno al tema un risalto sempre maggiore. E come sempre accade in questi casi, l’attenzione mediatica produce un fenomeno che ben noto: invece di discutere sul merito e sulla sostanza, si punta tutto sul sensazionalismo della competizione.
L’attenzione mediatica nei confronti della competizione per la Capitale Europea della Cultura 2019 si traduce nell’ampio risalto dato a chi, senza magari aver mai visto un dossier di candidatura o meglio ancora senza sapere bene nemmeno a quali domande devono rispondere le città candidate, discetta di favoriti, o addirittura ha già in tasca il nome del vincitore.
Basterebbe guardare alla storia recente delle competizioni degli altri Paesi per capire che non è mai saggio parlare di favoriti, e soprattutto che la giuria decide sulla base di parametri che sono ben lontani dal senso comune. La Capitale Europea della Cultura è una competizione molto tecnica, e il suo scopo principale è incoraggiare le città a uno sforzo strategico di lungo termine sulla cultura come leva di sviluppo. Uno sforzo che sarebbe impossibile o velleitario con gli strumenti tradizionali delle politiche culturali.
Ma questa occasione, per molti versi irripetibile per demolire una volta per tutte lo stupidario italiano sul rapporto tra cultura e sviluppo economico, la concezione “petrolifera” della cultura, tanto fumosa e velleitaria quanto diffusa, per portare l’attenzione sulle tematiche della partecipazione culturale attiva, dell’imprenditoria culturale giovanile, del rapporto tra cultura e nuovo welfare, e su altri temi tanto importanti quanto trascurati dai nostri media, mi sembra sia stata invece sostanzialmente sprecata.
Invece di parlare di una possibile agenda della politica culturale futura, si fa la conta a chi ha i monumenti più belli o i testimonial più famosi. Se ne dovrebbe dedurre che il nostro Paese ha una concezione “petrolifera” della cultura perché è quella che davvero rispecchia il sentire diffuso? Io voglio credere di no, e spero che ci saranno progetti che permettano di costruire concreti laboratori di sviluppo locale che ragionano nella direzione opposta.
Pier Luigi Sacco
docente di economia della cultura – università iulm di milano
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #15
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