Ritratto dell’artista dopo l’Apocalisse
Pubblichiamo qui la prima parte delle “Riflessioni esoteriche per la ricostruzione di un’identità” scritte da Gian Maria Tosatti. La sua opera napoletana, che inaugura un nuovo ciclo, è stata oggetto di innumerevoli commenti e discussioni. Qui c’è l’occasione dunque per riprendere e ampliare il dibattito.
A terra giace il corpo senza vita di un negro a cui sono appena stati strappati gli occhi in un incontro di mandingo fighting. Nell’aria echeggia l’eccitazione dei due scommettitori. L’eroe che ha appena vinto il match viene portato via come uno schiavo, lasciando presagire che sarà vittorioso ancora per uno, due incontri ancora. Finché non si troverà di fronte un lottatore più fresco e con meno cicatrici. Si parla di denaro. Di compravendita di schiavi, di combattenti, di uomini. Qualcuno avrà visto questo film. Qualcun altro ne avrà visto uno simile. Qualcuno ancora avrà la sensazione di ricordare l’atmosfera.
La letteratura (non importa se scritta, visiva, filmata, disegnata) degli Anni Settanta e Ottanta è pervasa da questo clima post-apocalittico. Dove nessuna struttura di valori è ancora in piedi e ogni terra emersa è diventata un’enorme isola deserta, in cui la legge degli uomini è la legge del più forte. Il mondo, semplicemente è diventato una battuta di terra e polvere su cui trascinarsi. Senza tempo, senza futuro né passato. Immemore.
È così che lo troviamo nel film Django di Sergio Corbucci. Non ci sono confini. E, se ci sono, si confondono tra loro. Non c’è un West né un East. Non c’è una legge. Ci sono uomini che si muovono sulla superficie, sulla crosta di un pianeta che sembra tornato a essere una distesa piatta. Che si misura a distanza di passi. Di giornate di galoppo. È il 1966. Sergio Corbucci gira il suo film. Mentre in Italia si consuma il boom economico. Le 600 sono ormai ovunque, ronzando come sciami di insetti. Il Sessantotto è la conclamazione del benessere che libera le generazioni. Il mondo dei rotocalchi non somiglia affatto, però, a quello del film di Corbucci. E la fortuna degli Spaghetti Western sembra inconcepibile, come inconcepibile sembra dover chiedere al pubblico lo sforzo di immaginare un mondo senza energia elettrica. È un pianeta in pieno movimento, quello che sta fuori dalle sale cinematografiche. Un mondo in costruzione. In cui le periferie spuntano nell’Agro Romano come denti cacciati fuori dal terreno per mezzo di gru meccanizzate. Periferie che si allungano come lingue di una civiltà in espansione. E in pochi, entrando al cinema, si rendono conto che lo schermo è rovesciato. Che è il cemento a essere la proiezione del sogno di una civiltà finita. Le periferie sono le sue necropoli. E lo slancio vitale del boom è l’ostinato – per quanto inconsapevole – attaccamento alla vita di un’umanità ormai sepolta. Sembra il gorgo finale del film The Others (2001) di Alejandro Amenábar. Un’escalation di esaltazione che culmina appunto col rovesciamento della prospettiva. La luce entra nella grande casa e ne illumina il vuoto, che il buio aveva riempito di ombre e di parvenze.
Nel 1966 lo schermo cinematografico diventa il diaframma critico di una generazione che potrebbe attraversare quella superficie come Woody Allen ne La rosa purpurea del Cairo (1985) o come Alice in Attraverso lo specchio e ritrovarsi nel mondo vero. E che in pochi l’abbiano fatto sul serio, pochi pionieri, è del tutto irrilevante. Eccolo comunque lì, il mondo fotografato con fedeltà nel 1966. Il mondo che tornerà a essere fotografato ancora e ancora dalla letteratura pop degli anni successivi, fino a quella che è anche una delle più popolari epopee fumettistiche o cartoonettistiche, quella di Hokuto No Ken (1983-1988), firmata da Buronson e Tetsuo Hara, la cui sigla veniva introdotta da questo testo: “Siamo alla fine del XX secolo. Il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni atomiche. Sulla faccia della terra, gli oceani erano scomparsi e le pianure avevano l’aspetto di desolati deserti. Tuttavia, la razza umana era sopravvissuta”. È la descrizione perfetta della scenografia di Django. E d’altro canto la narrazione che ha aperto questo testo potrebbe essere la descrizione da sceneggiatura di una delle possibili scene di Hokuto No Ken. E invece, a sua volta, è la scena di un film del 2012, Django Unchained di Quentin Tarantino, che da anni fa da Caronte fra le due sponde dello schermo. È infatti con lui, con la scena che prelude l’incontro dei due Django, che ho aperto questa riflessione.
Il film di Tarantino prende Django e lo tratta come un mito, è lui che gli riconosce il massimo status che un personaggio possa ambire, e così facendo lo plasma, lo cambia, proprio come fece Wagner con L’Anello del Nibelungo. I due uomini addirittura si incontrano nella pellicola ed è proprio da questo incontro che si capisce come nessuno di loro due sia di fatto Django, ma ognuno dei due, indifferentemente e, al contempo, con le dovute differenze ne è l’abito che fa danzare il suo archetipo. Intorno al loro gli altri personaggi agiscono, come se l’apocalisse che ha prodotto il niente in cui si muovono non fosse mai avvenuta, non avesse un’origine, un posto in una cronologia, in una memoria. Si agitano tutti come formiche le cui traiettorie sono guidate dall’obiettivo delle fatiche quotidiane. Ed è quasi indifferente che siano di profilo più basso, come quello delle prostitute che devono solo contare il numero delle prestazioni sessuali, o più alto, come la gestione del potere da parte del maggiore Jackson, l’antagonista del film Corbucci, o del signor Candy, nel film di Tarantino. Gli spettatori della vicenda di Django, al di qua o al di là dello schermo, si specchiano appunto gli uni negli altri attraverso questa dimensione immemoriale che li accomuna. Tutti si muovono come dimentichi di un’apocalisse muta, avvenuta ma silenziata, obliata-per-sopravvivere.
Ma allora chi è Django, non importa quale dei due, l’uomo che l’apocalisse sembra portarla, invece, sulle spalle? È facile ed è chiaro fin dalla prima scena del film, quella esaltata dalla celebre canzone di Luis Bacalov, e che è appunto essa stessa una immagine archetipa di tutta quella letteratura fanta-pop (come altro potremmo definire lo stesso genere western?) che l’ha ripetuta decine di volte, con piccolissime variazioni, modificazioni di dettagli più estetici che sostanziali.
Dunque, osserviamo quest’uomo solo che nella sua marcia sembra l’unico a procedere lungo una retta la cui origine sfuma nell’infinito e la direzione, allo stesso modo, si perde oltre l’orizzonte. È l’unico in movimento, che viene “dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli”, che gira “per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone”. L’unico per cui c’è ancora deserto dietro le montagne. L’unico che, forse, può sapere che “gli oceani sono scomparsi” perché non ne ha mai incontrato uno e dunque ha smesso di sognarne. E per cui, come per Céline nella Trilogia del Nord (1957-1969), un passo dopo l’altro calpesta solo polvere e polvere ancora. E per cui i villaggi, le città, le costruzioni in genere, non sono altro che gli spettri rimasti impigliati in un mondo svanito. Django è “una forza del passato”, dunque, qualcuno che, come l’autore francese, ha rotto il patto di omertà con gli altri uomini. Non per scelta, non attraverso un negoziato, una elevazione spirituale, un colpo di reni morale, ma per uno strappo, magari subìto. Semplicemente un giorno è stato tirato via dall’illusione, cavato a forza dalla sua casa in rue Gilardon da una guerra o dall’apocalisse. E su un deserto che sembra di sabbia, ma che in realtà è una metropoli infinita, sepolta dalla polvere dei crolli della civiltà, si trascina dietro una bara, il simbolo stesso della non-appartenenza alla comunità dei vivi. E che la bara di Django si riferisca alla morte della donna amata o alla sua non è poi così importante. In un caso o nell’altro essa rappresenta comunque un precipizio, un trauma assoluto, un culmine di cognizione nel sentire di aver perso tutto, di non avere più alcun interesse a essere un ingranaggio nella “macchineria del mondo”, come l’avrebbe chiamata Allen Ginsberg. Restano i suoi passi e una direzione che ne fa un ministro della morte. Nella bara, simbolo evidente che lo inchioda a una non-esistenza, c’è infatti nascosta l’arma che, di contro, lo terrà in vita e gli consentirà di compiere la sua missione. Ma la figura di Django, per quanto armata, non può essere quella di un eroe. È piuttosto la figura di un emissario di una giustizia che viene combattuta dagli uomini e che non è infallibile, perché è appunto una giustizia ancora portata da un uomo, che fallisce, viene torturato, mutilato, ma che non smette di proseguire la sua traiettoria e non molla la sua bara, perché nessun armistizio è possibile tra il mondo dei vivi e quello di chi si muove oltre la vita stessa.
E allora chi è Django? Se ci penso, la figura in cui mi pare di poterlo più facilmente riconoscere è quella dell’artista. Incontro molti artisti nel mio peregrinare. Li osservo. Comincio a seguirli da lontano quando si avvicinano. E continuo, quando mi attraversano e proseguono. Spesso portano con sé grandi borse piene di strumenti e del necessario per poter continuare un viaggio che conosce solo le dimensioni della terra e del cielo, e sovrascrive i nomi di città gli uni sugli altri fino a sommergersi reciprocamente in una palude indistinguibile di appunti e nomi. Trascinati a loro volta da una solitudine invincibile. Alcuni hanno già le mani fracassate, altri tirano la bara senza averla ancora guardata. Sono a loro volta come il Django di Tarantino, detentori di una mitologia di cui essi stessi sono a malapena consapevoli. E nel Django di Tarantino, infatti, allo schiavo negro liberato, la cognizione di portarsi sulle spalle il Sehnsucht di Sigfrido, gliela consegna qualcun altro, un altro artista. Un altro, che riconosce prima di conoscere e che al pari suo, si trascina per un paese post-apocalittico su un finto calesse da dentista, che però contiene i documenti che ne fanno, a sua volta, un ulteriore emissario della giustizia. Sanno entrambi sparare. Come gli artisti. Ogni opera è un colpo, un foro nelle tende, che fa passare la luce del giorno a trafiggere le ombre della casa di The Others. Ogni opera uno stato di necessità deflagrata, una bomba dalla miccia corta che può far sempre saltare anche se stessi.
Mi rendo conto che fare oggi questo discorso, pur quasi cinquant’anni dopo il film di Corbucci, non rende il ragionamento meno incredibile di allora. La storia dell’arte e la storia del cinema, non hanno ancora storicizzato l’apocalisse che ha chiuso il Secolo Breve. Il niente morale in cui, comunemente galleggiamo come anfibi. Ed è quindi ancora, per molti, come se la catastrofe fosse di là da venire. Se ne trovano tracce, più appunto nella letteratura pop che ho saccheggiato per questo testo, che in quella alta, che mi sono sforzato di non citare. Come nel Man in Black (1997) di Barry Sonnenfeld, in cui per trovare la verità bisognava cercarla nelle peggiori riviste di pettegolezzi. È per questo, forse, che l’artista del dopo-Apocalisse non può che essere pop, come appunto Tarantino, che proprio formandosi tra le pagine di questa letteratura bassa ha potuto finalmente raccontare, in Inglourious Basterds (2009) la verità su chi ha vinto la Seconda guerra mondiale trasmettendo immagini dall’Apocalisse incipiente e consumatasi poi nel ventennio successivo. E poi qualche anno dopo ha intessuto il mito wagneriano del Nibelungo con quello della schiavitù americana, in un sincretismo simile a quello che ha dato origine al voodoo mettendo insieme santi cattolici, zombie e deità pagane, in un pastone pop che mi fa venire in mente le migliori opere di Andrea Mastrovito, in cui, nella tabula rasa elettrificata dell’immemorialità contemporanea de-ideologizzata, de-religiosizzata, de-valorizzata, il martirio di Sant’Alessandro si consuma su un adagio dei Metallica, conservando la crudezza di un B-movie in cui il colore rosso zampilla da una testa mozzata e da un corpo che cade come un sacco fasciato da una t-shirt. Ed è ancora guardando a Mastrovito che penso, se guardo i suoi graffiti grattati nell’intonaco di un muro come se appunto la pittura stessa fosse negata, come se si fosse tornati all’epoca delle caverne o dei crocifissi disperati scavati con le unghie nei muri di Auschwitz. Pop essi stessi, i crocefissi, e dunque pop necessariamente anche la condizione necessaria degli artisti contemporanei per poter processare una mitologia che non ha mai ancora raggiunto l’apollineo e che palleggia i propri archetipi come elementi di una sottocultura rimbalzata dalle pagine di un vero padre spirituale per questa generazione come Werner Schwab, ai muri degli street artist, ai blockbuster di Chris Nolan, per tornare a essere riprocessata dall’arte che ne fa icona e dunque leggenda.
Il caso del Cavaliere Oscuro (2008 e 2012) è appunto una di queste leggende, che attraversa le forme dell’arte come un mito antico, portandosi dietro l’orizzonte analogo di macerie e detriti di una Gotham City sotterranea, di uomini-topi, e di antieroi morti al mondo e resuscitati a una missione di sacrificio che sembra sovrapporsi a quella di Django, ma anche alle storie di macerie che diventano iperboli come le cartoline dalla catastrofe che Giuseppe Stampone ha inviato in tutto il mondo da una città che prima di essere il teatro di un terremoto, sembra appunto il piccolo perimetro in cui il pianeta non riesce a suturare la sua piaga, la fioritura della sua malattia mortale, la ferita su cui il trucco non attecchisce e che continua a macchiare il cerone di sangue, e per questo viene recintata, vigilata dall’esercito, come “la zona” nel film di Tarkovkij Stalker (1979).
Immagini, quelle dei Saluti dall’Aquila, che somigliano in modo inquietante ai Dispositivi di rimozione di Goldiechiari in cui, ancora una volta, una donna nuda, da copertina di Panorama degli scintillanti Anni Ottanta, sta appiccicata come una toppa nello strappo di una strage, un’altra avvisaglia di un mondo post-apocalittico temporaneamente oscurata da un polo visivo d’attrazione che tuttavia s’espone nella ridicola sagometta bidimensionale di un oggetto sessuale.
Così come apparentemente ridicole sono le tavole della Global Education sempre di Stampone, che si propongono con la forma delle tabelle d’una impossibile rialfabetizzazione da scuole elementari, riprodotta nel suo immaginario più semplice, pop a sua volta, per insinuare l’inquietudine di nuovi significati, di lettere che tra loro non legano, non servono a creare un codice, ma solo ad affermare una oscenità. Non diversamente dalle macerie petrolifere di Andrea Nacciarriti che espongono con sfrontatezza autoptica le interiora appese di un sistema economico la cui fisica è marcia quanto la propria morale.
E così ancora altri artisti, uno su tutti Alessandro Bulgini col suo B.A.R.L.U.I.G.I. che sembra appunto il saloon di Django, un luogo in cui si consuma tutto l’attrito fra un dentro e un fuori, tra un ricovero e una wasteland. E ancora altri artisti, sarebbero da citare, se me ne venissero in mente in questo momento, mentre viaggio da una città all’altra, che armeggiano con questa cultura povera, miserabile quasi, con questi strumenti stentati per fare il ritratto di una realtà che pure dev’essere incisa se anche tutto l’acciaio più puro per fabbricare punteruoli fosse finito sepolto sotto la polvere dell’Apocalisse. E per parlare dell’Apocalisse si deve parlare la lingua dell’Apocalisse. Una lingua in cui sono rimaste poche parole, che si sono imbastardite, si sono confuse, come nel pantheon del voodoo, e che servono a costruire formule di una religione popolare, una religione bassa che può essere officiata da pellegrini che hanno perso tutto tranne la direzione. Come nella prima scena del Django di Corbucci. Gente che non porta la guerra né la Rivoluzione, anzi che neppure canta alla Rivoluzione. Portano solo una battaglia, una tensione che si spezza, un incendio. Portano solo la piccola verità a cui sono incatenati. E non è importante se di questi stessi artisti che cito o di quelli che potrei ancora citare, il sistema dell’arte, il sistema delle gallerie, dei musei a buon mercato, s’affretta a fare un diverso ritratto, un ritratto di splendore salottiero, se sulle loro sagome di cartone a grandezza naturale mette addosso il trucco demodé di leoni da giardino. Guardando le loro opere non è l’aria stantia del feticismo oggettuale che si respira. Si sente piuttosto il vento della pianura vuota. Il vento nucleare che si alza sulla terra abbattuta. Ed è solo questa immagine di mondo azzerato che questi monaci contemporanei possono venirci ad annunciare, spogliando, col loro lavoro, una per una, le illusioni di chi crede che ci siano, sulla wasteland che percorrono in lungo e in largo, dei regni sui quali si possa ancora regnare.
Gian Maria Tosatti
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