S.a.L.E. Docks: l’altra faccia di Venezia
Un dialogo con Marco Baravalle del S.a.L.E. Docks. Un collettivo che a Venezia intreccia cultura e territorio. Dal 2007 promuovono eventi culturali, dibattiti e azioni di protesta sociale. Una panoramica sulla loro attività, dalle origini alle mosse future.
Il progetto S.a.L.E. Docks nasce nel 2007 in seguito all’appropriazione di uno degli spazi dei Magazzini del Sale che era in disuso. Puoi spiegarci cosa sono i Magazzini del Sale, da quanti elementi è composto lo zoccolo duro del collettivo e quali sono i vostri rispettivi ruoli?
Il collettivo vero e proprio di S.a.L.E. Docks è formato da una ventina di persone. La maggior parte sono studenti universitari delle varie facoltà di Venezia legate allo studio dell’arte a vario titolo, alcuni studiano a Ca’ Foscari economia dell’arte, alcuni artisti dell’Accademia di Belle Arti e di Arti Visive dello IUAV. Altri si occupano di design e abbiamo anche un’attrice di teatro e cinema. Competenze varie che coprono quasi tutti gli ambiti dello spettro culturale.
I Magazzini del Sale sono gli antichi depositi del sale della Serenissima Repubblica, la prima costruzione risale al XV secolo. Quando nel 2007 siamo arrivati alcuni erano occupati, in particolare la sede di una remiera (la Remiera Bucintoro) e la sede di un club di subacquei. I Magazzini del Sale già negli anni Novanta erano stati impiegati come luoghi per esposizioni temporanee; noi ne individuammo uno, che è quello dove siamo tuttora, di proprietà del Comune di Venezia e che all’epoca era largamente inutilizzato. La scelta di occupare questo spazio proviene da una serie di ragionamenti che comprendono sia quello che facciamo, sia la situazione che la città sta attraversando.
Il vostro spazio, che è culturale e relazionale allo stesso tempo, è inserito in un circuito importante per l’arte contemporanea: siete vicini a Punta della Dogana, la Biennale è all’apice di questa via ideale, accanto avete una delle sedi della Fondazione Vedova. Siete inseriti in un contesto istituzionale fortemente strutturato, quale valore aggiunge in questo contesto uno spazio come il vostro, indipendente e interamente autogestito?
In città gli investitori sul contemporaneo sono sia pubblici che privati, questi in qualche modo spingono la città oltre il suo classico stereotipo di “città museo” e lavorano, magari non consapevolmente insieme, per indirizzare Venezia in una direzione: quella di città creativa, la città del contemporaneo, oltre alla storica presenza della Biennale che naturalmente qualifica da più di un secolo il contemporaneo in città. Queste spinte sono le nuove università, le nuove fondazioni pubbliche o private, e un passaggio in particolare denota come sintomatico questa direzione: l’operazione di François Pinault. Da un lato l’investimento di 30 milioni di euro nel restauro di Punta della Dogana, dove poi ha aperto il Museo che ospita la sua collezione, e dall’altro il passaggio di proprietà della sede storica di Palazzo Grassi da FIAT, la grande industria fordista dell’automobile italiana, a Pinault. Operazioni di questo tipo, si affiancano a uno sviluppo sempre crescente della Biennale, sia in termini di visitatori che in termini economici e di partecipazione, un aumento che sembra irrefrenabile, nonostante la crisi.
A ogni edizione il numero delle nazioni presenti cresce e fioccano gli eventi collaterali. In un momento così di grandi investimenti, esistono grandi possibilità. Riscontriamo però anche un altro dato per le persone che vivono in città e si occupano a vario titolo di cultura, per loro questo processo presenta un lato oscuro. A questo tipo di economie, quelle delle industrie culturali, dell’economia dell’evento, dei grandi investimenti di capitali, non corrisponde mai una ridistribuzione sociale. Chi lavora in questo comparto economico è quasi sempre in una posizione di precariato. Il ricorso agli stage è la regola, e spesso non si tratta di un’occasione di formazione, quanto piuttosto di un approvvigionamento di manodopera gratuita. Ci rendiamo conto che manca in città un soggetto che produca una critica concreta, allo stesso tempo non sciocca e non strumentalizzabile.
In questo senso è strategica la scelta del luogo?
Sì, volevamo un posto centrale all’interno di questo meccanismo, non volevamo essere periferici. Non me ne vogliano i vicini di casa, ma quella dei Magazzini del Sale è un’area con un’inesistente socialità. Non ci sono dei bar, non ci sono punti di ritrovo, non ci sono negozi, è un quartieri di musei. C’è spazio per le istituzioni, ma non per la vita sociale. Volevamo sottolineare un altro modo di produrre cultura, una modalità che mette al centro la vitalità dei cittadini. Spesso i musei e le istituzioni soffrono di una sindrome bipolare, un’iniziale esaltazione che risente di una successiva depressione. Il S.a.L.E. cerca, attuando strategie culturali diverse, di fare in modo che lo spazio viva più lungo.
Il vostro impegno come collettivo rispetto al territorio e alla sua problematicità è molto forte. Siete attivi nella lotta contro le grandi navi, avete organizzato eventi che andavano da vere e proprie azioni a performance, e recentemente avete organizzato la proiezione nel vostro spazio del documentario “Teorema Venezia” di Andrea Pischler con un successivo dibattito con il regista aperto a tutti. “Programmazione culturale” e turismo di una città sono aspetti importanti che devono dialogare, ma che non sono da confondere…
Per noi la vita di una strana istituzione culturale come il S.a.L.E. non può prescindere dall’essere considerata un’istituzione del “comune”, ma non inteso come ente. “Comune” nel senso di qualcosa che appartiene alla comunità. Mi piace considerare il S.a.L.E. “un’istituzione culturale per il bene comune”, quindi non possiamo chiuderci solo nella specializzazione culturale, dobbiamo guardare anche a quello che succede fuori. Siamo in contatto con diversi comitati, tu hai citato questo delle grandi navi, ma ce ne sono altri. Siamo affratellati con il Morion, che è un centro sociale (il gruppo originario del S.a.L.E. proviene da lì), siamo dentro la rete dei centri sociali del nord-est e dei teatri occupati in Italia. Sulla questione del rapporto tra progettazione culturale e turismo credo che ci sia un problema di fondo che è dato da un atteggiamento tipico: quello di demandare tutto alla governance. Penso ad esempio a quello che successe qualche anno fa, quando molti operatori culturali legati all’arte contemporanea scrissero da diverse città d’Italia una lettera all’allora Presidente della Repubblica perché non vedevano riconosciuta la loro professionalità e denunciavano un’ingerenza della politica nelle istituzioni culturali. Operazioni come queste sono importanti, però c’è sempre il limite della delega. Le istituzioni hanno dei limiti, condivido il merito di quelle richieste, però bisogna uscire dalle logiche del corporativismo e della delega. Certo, si deve chiedere alle istituzioni, però intanto bisogna agire in prima persona.
Parliamo di Open, il progetto che incarna la vostra filosofia di pensiero, di pratiche culturali attive e trasversali all’interno del tessuto urbano. Siete alla sesta edizione, avete delle linee guida o lascerete tutto in mano al pubblico?
Il primo incontro pubblico si è svolto il 23 ottobre presso il nostro spazio, ma non abbiamo dato delle linea guida. Abbiamo proposto un’impostazione iniziale per i tavoli di lavoro, suddivisi in base alla varie competenze, come è stato fatto l’anno scorso quando siamo trovati a dover gestire un gruppo di 130 persone che dopo quattro mesi e mezzo di lavoro è diventato di 50, ma è stato comunque un ottimo risultato. Per il collettivo “Open” rappresenta un modo per metterci nella condizione di ricevere e di fare quindi un voluto passo indietro. Questa modalità di lavoro così suddivisa, non l’abbiamo invitata noi, l’abbiamo mutuata da Macao. Durante le assemblee plenarie cercavamo di diversificare i vari tavoli di lavoro, man mano che il lavoro prendeva forma la suddivisione iniziale cercava di essere superata. Maurizio Lazzarato direbbe che abbiamo riadottato dei neoarcaismi. In questo caso li abbiamo adottati, ma abbiamo cercato anche di superarli, seppur con molta difficoltà. Il punto saliente di “Open” non è solo la mostra finale, per la quale si cerca di fare il meglio che si può, ma il processo che c’è dietro e le varie dinamiche che si creano con i tavoli di lavoro.
All’interno della quarta edizione di Open avete presentato il soppalco che è nel vostro spazio. Questo soppalco è stato costruito insieme all’artista Thomas Kilpper, con i materiali che ha disinstallato dall’opera che ha realizzato per il Padiglione Danimarca in occasione della 54. Biennale di Venezia (2011). Un’azione che ha due importanti connotazioni, una di carattere ecologico, che tocca lo smaltimento dei materiali di rifiuto nel post Biennale, e una di carattere artistico poiché lo stesso Thomas Kilpper ha partecipato insieme a voi a questa seconda vita della sua installazione. Spieghiamo bene di cosa tratta questo progetto e per quest’anno cosa pensate di fare?
Si tratta di un progetto spin-off del S.a.L.E. che si chiama ReBiennale e consiste nel recupero di materiali che la Biennale dismette una volta terminata, quindi certamente da un punto di vista ecologico è un’operazione importante. Nella Biennale del 2011 Thomas Kilpper aveva costruito nel padiglione danese un’extension architettonica fatta per lo più di legno, sopra la quale erano messi in scena diversi eventi durante tutto il periodo della mostra. Ci siamo conosciuti perché lui sapeva dell’esistenza del progetto ReBiennale e ci ha proposto il recupero di questa sua installazione. L’operazione ha fatto risparmiare al suo committente moltissimi capitali per lo smaltimento dei rifiuti. Kilpper ha inoltre disegnato il progetto vero e proprio del soppalco da inserire nel nostro spazio e successivamente abbiamo organizzato un workshop di autocostruzione di una settimana per realizzarlo. Adesso che ci avviciniamo alla chiusura della Biennale cominceremo a organizzarci per dei sopralluoghi e capiremo cosa si può fare, cosa ci interessa e cosa si può rimettere in circolo. Comunque non tutti i materiali prodotti dal progetto ReBiennale finiscono al S.a.L.E.; vengono anche utilizzati per il network di case occupate che esiste a Venezia, l’ASC – Agenzia Sociale Casa. Sempre due anni fa abbiamo recuperato una parte del giardino a Santa Marta, che era stato chiuso, lo abbiamo riaperto e gli arredi di questo piccolo giardino li abbiamo realizzati con materiali di scarto provenienti dalla Biennale. Rientra tutto in una logica che vede la Biennale al servizio della città e non la città al servizio della Biennale.
Giorgia Noto
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