Recentemente, in una bellissima mostra dedicata a Michelangelo Antonioni, è stato esposto il suo lavoro su Lucia Bosé e Monica Vitti: figure femminili che la sua sensibilità ha trasformato in dive, aiutato da due grandi maison romane, Fausto Sarli e le Sorelle Fontana.
La mostra a Palazzo Diamanti di Ferrara raccontava quella creatività colta italiana che non conosce limiti di indagine e si muove su tutto, utilizza l’arte, l’architettura, la moda secondo la propria esigenza espressiva. Il modo di usare e non essere usati dalle cose, di chiedere aiuto agli oggetti per costruire un racconto, oltre che un’immagine. Operazione impossibile senza cultura e conoscenza per cui si scelgono strumenti e figure adatte e non si va fuori tema per errori di superficialità. Antonioni è uno tra i migliori esempi di creazione di stile italiano: si dice che i pantaloni bianchi di David Hemmings in Blow-up fossero suoi e in mostra i film dei provini di Monica Vitti che prova tessuti e abiti o i bozzetti che lui stesso disegna per Lucia Bosé ci illuminano tanto quanto le immagini di Zabriskie Point.
Come dire che i creativi italiani sono stylist naturali; forse questa naturale propensione al sano disordine, allo stravolgimento anarchico dell’ordine delle cose, all’utilizzo felliniano dell’immagine rappresenta la nostra forza e il nostro limite. Il limite sta nella paura che questa abilità suscita negli altri, i quali tendono a non farci crescere troppo, a darci poco spazio: ci usano ma non ci fanno crescere, a meno che non lavoriamo per loro.
Insieme a Michelangelo Antonioni, un altro grande viaggiatore ha ridisegnato il mondo cambiando completamente la femminilità una ventina di anni fa e, per le sue caratteristiche colte, non è mai passato di moda. Un esempio di stile non solo per le donne, ma anche per mille altri creativi: Romeo Gigli, come Paul Poiret agli inizi del Novecento, ha raffigurato un mondo fantastico dove l’abito è portatore di una storia. Lo styling è parte fondamentale del lavoro di couturier di Gigli ma è visibilmente frutto del sapere, dei suoi ricordi, del mondo che ha visto e che ha saputo tradurre in tagli, stoffe, sovrapposizioni di capi apparentemente inconciliabili, ma dove ogni singolo pezzo basta per entrare in quel mondo. La ricerca profonda fa sì che ogni elemento della sua collezione sia fondamentale e sufficiente come un pezzo dentro una Wunderkammer. Non sempre chi fa questo lavoro è così dotato.
Gli stylist sono figure professionali determinanti nella moda contemporanea. A fianco di un fashion designer, di un brand, o di un fotografo o di un magazine sono capaci di inventare storie e personaggi con abiti e accessori. Non c’è redazionale che si rispetti senza un titolo, e a quel titolo corrisponde lo show delle immagini: come per un film, va fatto un casting perché la modella sia giusta per quel mood, si scelgono gli abiti e gli accessori che spesso sarà difficile riconoscere senza le didascalie. Il fotografo e lo styling corrispondono a quello che nel cinema sono regista e costumista: lavorano in simbiosi, con una intesa che non faccia perdere troppo tempo visti i costi di certe campagne.
Prima, quando le foto ritraevano abito e modella nel miglior modo possibile per apprezzare i particolari di rifinitura, questo non serviva. Pensiamo ancora all’immagine cult del fotografo di moda di Blow-up: nello studio, lui e le modelle, un rapporto a due. La costruzione del personaggio così come la viviamo ora, del mood, del tema somiglia di più a quello che prima avveniva solo nel cinema. Ma la storia della moda è strettamente legata al cinema: le vamp prima e le dive poi furono quei modelli che cancellarono l’importanza delle regole dettate dai couturier. Grandi creatori furono costretti ad adattarsi a modelli femminili imposti dal grande schermo e cambiare il disegno, modellandolo sull’immagine delle eroine del momento. Le famose major americane, le grandi case di produzione cinematografiche che negli Anni Trenta mettono in atto una vera e propria politica culturale specializzandosi ognuna in un filone, creano un’industria con scuderie fatte di tecnici e professionisti. Per lanciare una star arrivavano a spendere milioni di dollari, consapevoli di promuovere un prodotto commerciale sul mercato. Il cinema era capace di far sognare migliaia di donne e i grandi magazzini permettevano di comprare le copie degli abiti delle attrici a prezzi accessibili.
Lo si può leggere come il primo passo di distribuzione democratica del prodotto di moda: mentre l’Europa parigina dava regole di raffinata e selettiva eleganza con le collezioni di Chanel, Dior e altri, gli americani dicevano che tutte le donne potevano essere vestite come in un film. Il sistema non è cambiato: ancora oggi il costumista/stylist detta le regole creando dei personaggi e i film lanciano le mode. Noi italiani non riusciamo a essere così votati completamente al successo del prodotto; rispondiamo con quella attitudine più colta, innata, quella di Michelangelo Antonioni o Romeo Gigli.
Clara Tosi Pamphili
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #15
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