Un Decreto lacunoso
Il Decreto Bray si è attribuito il titolo “Valore Cultura”, quindi innesca aspettative. Il che è sempre rischioso, soprattutto nella nostra Italia lamentosa per formazione e necessità. Già il fatto che ci sia è un bel segnale, ma vorrei concentrarmi sul metodo. L’editoriale di Fabio Severino.
Il decreto tocca tanti settori della cultura, ma manifesta il solito limite dei decision maker: si preoccupa solo dell’offerta e mai della domanda. La Costituzione parla di popolo sovrano, però a questo popolo poi nessuno ci pensa. A seguire – ma strettamente connesso – manca il privato. Si pensa solo all’offerta istituzionale, a migliorarne l’efficienza, a renderla trasparente, a liberarne (con le donazioni) le risorse.
Tutto ammirevole, ma in Italia la maggior parte dei produttori di cultura sono privati. Non parlo di quel privato che è sul mercato per modo di dire (produzione cinematografica e lirica sopravvivono e hanno prosperato con le risorse pubbliche, non certo per una domanda consistente e selettiva). La disattenzione verso il privato vero si nota con l’assenza dal decreto di interventi sull’editoria, che è l’unico settore che non percepisce alcuna sovvenzione, e sul mercato dell’arte. Quest’ultimo in particolare vale oltre 300 milioni di euro l’anno, ma è in progressivo declino.
Gli operatori sono le case d’asta, le gallerie e i mercanti. Migliaia di imprese, molte delle quali stanno chiudendo. Per Sotheby’s e Christie’s l’Italia non è più una priorità: mancano i venditori e non arrivano i compratori. Colpa non è la crisi ma di una legislazione (Dlgs 42/2004) che obbliga a chiunque desideri vendere opere di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre cinquanta anni ad avere l’autorizzazione del MiBAC, che ne deve valutare “l’interesse culturale”. Vi potete immaginare cosa includa (o nasconda) tale connotazione e la discrezionalità dei funzionari
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