Ah Giacì! Riflessioni in margine della Biennale di Venezia
Perché questa Biennale del 2013 si farà o sarà da ricordare? Perché parlare di questa Biennale? Perché è piaciuta? Perché Massimiliano Gioni è amico, e questo in Italia ci può stare? Perché è anche amico di amici e conoscenti come Bonami e Cattelan? Perché abbiamo avuto in parte lo stesso maestro-amico Giancarlo Politi? Che pizza!
“Ah Giacì: ma che stai a dì?”, direbbe Erminia (Rossana Di Lorenzo) al marito Giacinto Colonna (Alberto Sordi) nel film Le Coppie (1970), scambiato per il principe Colonna nel prenotare un albergo in Costa Smeralda, ma non appena scoprono che è un metalmeccanico (la Fiom, ieri come oggi, sempre a creare problemi) lo mandano via. Per forza, Colonna cognome nobile senza neppure aver bisogno del ‘di’ minuscolo, quel ‘di’ che ho pure io, ma maiuscolo: ‘Di’. Ma, come per Giacinto Colonna, chi lo sa? Tanto che la maggior parte delle persone continua a pensarmi con qualche quarto di nobiltà.
“Ah Giacì: ma che stai a dì? Nobiltà, ignobiltà, la Biennale?”. Ah sì, la Biennale in cui Sordi non è più Giacinto Colonna ma Remo Proietti, fruttarolo de Roma, con la moglie Augusta (Anna Longhi), nell’episodio de Le vacanze intelligenti (1978), figurativamente molto simile a Erminia, alla Biennale dello stesso anno si assenta per prendere qualcosa da bere e da magnà alla moglie, che nel mentre si siede ignara sulla sedia parte dell’installazione di Maurizio Nannucci, Imagine du ciel, e viene scambiata per una scultura vivente, “un’opera originale” che una coppia di collezionisti in visita acquisterebbe per 18 milioni.
“Ah Giacì, ma che stai a dì, non è quella del ‘78 la Biennale di cui bisogna parlare, ma quella del 2013”. Mah, sì, la Biennale del ’78, Arte e Natura, ha delle relazioni con quella di oggi, e poi ora c’è anche il remake di When attitudes become form, mostra storica del 1969 curata da Harald Szeemann che Celant ricostruisce quasi paro-paro alla Fondazione Prada di Venezia, in una sorta di ready made curatoriale. Una mostra, quella di Szeemann, a cui molti riferiscono anche la curatela di Gioni per quest’edizione. Mah.
Il Palazzo Enciclopedico è proprio una bella Biennale con belle opere e belle idee, con opere e idee interessanti, si sarebbe detto ancora sul finire degli Anni Settanta, un fine decennio che apriva all’affermazione di valore del bello al posto dell’interessante, passando dalla Trinità dialettica hegeliana di tesi, antitesi e sintesi al senso binario del mi piace / non mi piace dell’opposizione 0101010… del computer dell’epoca dell’elettronica.
La Biennale di Gioni ha il merito di mettere in discussione l’esclusività del sistema dell’arte senza estrometterlo, anzi, e di reintrodurre l’aggettivo ‘interessante’, mettendo in relazione l’arte del sistema dell’arte con il mondo più ampio della creatività, conscio che nessuna Biennale oggi può arrivare, se non in minima parte, a presentare le ultimissime novità. Insomma, chi pensa che si possa andare in una qualsiasi Biennale per scoprire i nuovi artisti non è che un illuso. Meglio cercare di utilizzare questo palcoscenico come luogo per riflettere sull’arte, anche trasformando l’esposizione in qualcosa di tipo museografico.
Sono in molti a dire che la trasformazione in mostra museografica non rispetta la missione della Biennale, dimentichi del fatto che per molti anni è stata una manifestazione con mostre di tipo museografico, tanto che nel 1980 si rese necessaria l’apertura – per volontà di Szeemann, sempre lui, e Bonito Oliva, pure lui – della sezione Aperto ai Magazzini del Sale, in cui presentare le ultime novità, passata negli anni successivi all’Arsenale e finita, dati i tempi, anch’essa per essere “musealizzata”.
La Biennale di Gioni è casomai imparentata con il Museo delle Ossessioni e con la mostra Monte Verità di Szeemann e in parte con Open Mind di Jan Hoet e fors’anche con l’apertura a 360 gradi della Biennale del 1993 diretta da Achille Bonito Oliva.
Ma a parte padri e madri, è interessante vedere quali spunti questa Biennale può dare e, vista l’ampiezza, per non tediarvi ne dirò uno solo: Marino Auriti. Con il Palazzo Enciclopedico, Auriti – emigrato da Guardiagrele negli Usa – ripropone la questione delle grandi narrazioni utopiche, questioni universali lasciate cadere dalla postmodernità. Va sottolineato che già formalmente il Palazzo Enciclopedico ricorda molto le architetture visionarie di illuministi come Boullée e Ledoux, e per ciò è anche interessante notare che Auriti muore nel 1980, anno in cui il postmoderno afferma il suo status di decennio.
Ma l’utopia di Marino Auriti non si è esaurita in sé, non è stata una semina vana: un suo parente, Giacinto Auriti – sempre di Guardiagrele, professore alla Sapienza di Roma e preside dell’Università di Teramo, giurista, saggista e uomo politico morto nel 2006 -, ha dato vita anch’egli a un’utopia sociale. Ispirandosi alle teorie economiche di Ezra Pound sul conflitto tra economia e finanza, che il poeta tratta nel XLV dei suoi Cantos e nei due libri Abc dell’Economia e Lavoro e Usura, e avendo nelle vene il sangue dell’utopia, nel 2000 Giacinto Auriti dà vita a Guardiagrele all’esperimento della moneta del popolo emettendo il Simec, sostenuto dall’allora sindaco Mario Palmerio. Una moneta parallela alla Lira e per la quale venne creato anche un Assessorato per il Reddito di Cittadinanza. Moneta poi confiscata dalla Guardia di Finanza su ordine della Procura di Chieti e in seguito revocata. Inoltre, dal 2005 le teorie di Giacinto Auriti contro il “signoraggio bancario” vennero sostenute per tre legislature alla Camera dei Deputati da Antonio Serena e poi riprese nel 2011 da Antonio Di Pietro.
Per dire quanto possono andare lontano le visioni enciclopediche.
Giacinto Di Pietrantonio
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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