Atterraggio a Baku
Parafrasando “Flying to Baku”, il titolo della mostra itinerante che ha portato per la prima volta in Europa l’arte contemporanea dall’Azerbaijan, siamo andati a scoprire come sta cambiando la sua capitale Baku. Dove è stato recentemente inaugurato il nuovo museo-astronave firmato Zaha Hadid, e dove istituzioni non governative - sebbene spesso molto vicine alla famiglia del presidente - e giovani artisti lavorano per cambiare il volto del Paese.
“L’Azerbaijan è ricco e ora vuole diventare famoso”: Così titolava il New York Times in un articolo del maggio scorso, parlando di questo piccolo Paese incuneato tra Iran e Russia, che molti ancora fanno fatica a collocare sul mappamondo. Baku, la sua scintillante capitale, candidata a diventare una Dubai sulle rive del Mar Caspio, è proiettata verso il futuro, con la città medievale fortificata completamente rinnovata e i suoi maestosi palazzi di fine Ottocento, memoria di quando la famiglia Rothschild dominava una regione che assicurava metà del fabbisogno mondiale di petrolio. Oggi quei palazzi sono fiancheggiati da strade con palme e boutique di lusso, attraversati da una passeggiata ribattezzata Bulvar, sei grand hotel aperti nel giro di due anni, e sovrastati dalle imponenti Flame Towers, grattacieli costati 350 milioni di dollari e trasformati in schermi giganti, grazie a più di 10mila led che ogni sera li illuminano come fossero torce giganti.
La scena artistica della città è tra le più dinamiche del momento, con gallerie e artisti emergenti sempre più trendy e famosi. A dare il suo contributo, l’Heydar Aliyev Center, il centro culturale progettato dall’archistar britannico-irachena Zaha Hadid, inaugurato nel giugno scorso. Arrivando in taxi dall’aeroporto, la sua mastodontica forma fluida sbuca all’improvviso come una piega nella topografia naturale del paesaggio, come un’astronave appena atterrata dal “Pianeta Futuro”, ed è già diventata il simbolo visivo di un Paese in grande trasformazione. Nel pieno di una seconda ondata di boom petrolifero, controllata a vista dall’onnipresente figura del defunto presidente Heydar Alijev, fautore dell’Azerbaijan moderno e padre dell’attuale presidente Ilham Aliyev, rieletto per la terza volta consecutiva nel mese scorso, Baku è la capitale di un Paese ricchissimo, che negli ultimi dieci anni si è riconquistato il ruolo di Stato strategico, per le sue grandi riserve di petrolio e i giacimenti di gas naturale. E che ora vuole affermarsi anche per la sua cultura e la sua creatività contemporanea.
“Qui lo sviluppo dell’arte contemporanea è più veloce rispetto agli altri Paesi del Caucaso solo perché circolano molti soldi, e abbiamo il supporto finanziario necessario allo sviluppo dell’arte. Il Governo ha capito che il futuro del Paese dipende dai giovani, e questa nuova generazione, qui come altrove, è molto vicina all’arte, la considera un modo forte per esprimersi”. Ce lo racconta Sabina Shikhlinskaya, artista e curatrice indipendente, una delle pioniere dell’arte concettuale in Azerbaijan. “Ho iniziato a fare la curatrice perché percepivo una situazione di stallo. Il concetto di arte contemporanea in Azerbaijan si è formato solo dopo il collasso dell’Unione Sovietica, negli Anni Novanta. Non potevo aspettare che qualcuno si accorgesse di noi, quindi mi sono fatta avanti”. Sabina è membro dell’Unione degli artisti azeri dal 1988, ha il titolo di “Honored Artist” della Repubblica, si è formata al Vera Mukhina Institute di San Pietroburgo e poi alla University of Art and Culture in Azerbaijan, ha partecipato a Documenta nel 2012 e curato il primo Padiglione dell’Azerbaijan alla Biennale del 2007. “Ho studiato arte per più di quindici anni”, ci racconta mentre sediamo in un tipico caravanserraglio della città vecchia, davanti a una tazza di tè servito come da tradizione con marmellata, assieme alle famose qutab, gustose crêpe ripiene. “Sono un’artista in continua trasformazione, mi trasformo assieme alla società, e cerco sempre di riflettere all’esterno quello che succede intorno a me”. Sabina nel corso degli anni si è allontanata sempre di più dall’arte decorativa e tradizionale, per formare un movimento di Land Art che a lei piace chiamare “Site Specific Art”. “Ho sempre trovato molto interessante lavorare in luoghi devastati, così come lo erano i palazzi e le fabbriche dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Era una tragedia dal punto di vista ambientale, ma una fonte di grande ispirazione per gli artisti”. Sembrano immagini lontane dall’elegante Padiglione dell’Azerbaijan all’ultima Biennale di Venezia, che nella mostra Ornamentation presentava i lavori di sei artisti, fra tradizione visiva islamica e influenze moderne. Sabina insiste: l’arte contemporanea qui è ancora agli albori, “non ci sono istituzioni pubbliche vere e proprie che si occupano di arte contemporanea, non esistono curatori professionisti né critici d’arte, né tantomeno un mercato dell’arte. Si tratta ancora di arte alternativa, non underground ma alternativa. È un processo che richiede tempo, ma ci stiamo arrivando”.
E infatti molte cose si stanno muovendo. Poco sopra il vecchio caravanserraglio, alla fine di uno dei viottoli lastricati e tirati a lucido della città vecchia, si arriva nella sede di Yarat, all’ultimo piano di un palazzo nuovo di zecca. Fondata nel 2011 da un gruppo di giovani artisti, tra cui Aida Mahmudova, nipote del presidente azero, Yarat Contemporary Art Space è un’organizzazione non profit dedicata alla promozione e alla valorizzazione dell’arte contemporanea in Azerbaijan, con l’obiettivo di creare una piattaforma sia locale che internazionale per artisti emergenti e nomi già riconosciuti. Negli uffici di Yarat – spazi moderni e arredi di design – si percepisce da subito un’atmosfera giovane, laboriosa, energetica. In soli due anni di attività, l’organizzazione è passata da uno staff di tre persone a circa quindici dipendenti. “Abbiamo fatto molto in questi due anni, sono molto contenta di come stanno evolvendo i nostri progetti”, ci dice la fondatrice Aida Mahmudova, che ha dato vita a Yarat assieme agli artisti Orkhan Houseynov, Rashad Alakbarov, Faig Ahmed e Farid Rasulov, creatori qualche anno prima di un’associazione di artisti dal nome profetico: The Winds of Time. “Abbiamo incontrato Aida durante la mostra ‘The Fabulos Four’ che avevamo organizzato noi stessi nel 2011”, ci racconta Rasoluv. “Aida ci ha coinvolto da subito nel suo progetto di aprire un centro dedicato all’arte contemporanea, e così è cominciato tutto. Eravamo come una famiglia che poneva le basi per il futuro. In questo Paese esistono due periodi distinti: il “prima” e il “dopo” Yarat. Prima l’arte contemporanea era una sorta di hobby, ora siamo un gruppo organizzato, professionale”.
Yarat è la realtà emergente più significativa nella scena contemporanea del paese. Oltre a supportare i giovani artisti, dedica molto spazio all’educazione, attraverso un programma di seminari, corsi e master class. Ha anche aperto una delle prime gallerie di arte in città, la Yay Gallery!, in una piazza della città vecchia, concepita come una “commercial no-profit gallery”: luogo in cui gli artisti possono esporre le loro opere e venderle, e il ricavato va direttamente a loro e in parte a sostegno delle attività di Yarat. “Quasi ogni settimana organizziamo una master class soprattutto in video o digital art. Cerchiamo di intercettare i bisogni degli artisti e di coprire le lacune esistenti”, continua Aida Mahmudova. “Viviamo in un Paese in cui esiste un’ottima educazione accademica, ma niente che vada oltre le teorie e le correnti tradizionali”. Il programma di Yarat prevede anche un progetto specifico dedicato agli artisti più giovani: si chiama Artim – che in azero significa ‘progresso’ – ed è concepito come un open day che due volte l’anno dà loro la possibilità di presentare i lavori più belli, per incoraggiarli e supportarli nella partecipazione ad altri eventi di arte contemporanea nei Paesi vicini, come Georgia e Uzbekistan, e nell’area caucasica. Nel 2012 Yarat ha lanciato anche il Baku Public Art Festival, che ogni anno da marzo a settembre presenta esposizioni site specific in luoghi pubblici della città, con lo scopo di creare un dialogo diretto con un pubblico più diversificato. Il titolo-tema di questa edizione è stato Participate e ha presentato una serie di installazioni, performance, workshop di dieci artisti e curatori da Azerbaijan, Georgia, Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti, con nomi come Mark Jenkins, Rebar Group e Florentjin Hofman, la cui gigantesca Rubber Duck ha galleggiato al largo della costa che fronteggia Baku.
Molti degli artisti che hanno fondato Yarat sono gli stessi che oggi rappresentano l’Azerbaijan a livello internazionale. Farid Rasoluv, classe 1985, è originario del Karabach e ha una storia molto particolare, esemplare di come sta evolvendo la scena artistica locale. È laureato in medicina e fino a un paio di anni fa faceva il chirurgo a tempo pieno. Oggi rappresenta l’Azerbaijan alla Biennale di Venezia: è suo il salotto-opera di design contemporaneo, rivestito di una texture che richiama i tappeti tradizionali azeri e che accoglie i visitatori all’ingresso di Palazzo Lezze in Campo Santo Stefano; e sue opere sono in mostra a Love Me, Love Me Not, l’esposizione dedicata all’arte dall’Azerbaijan e dai suoi Paesi vicini, organizzata da Yarat in occasione della Biennale alle Tese dell’Arsenale, e ribattezzata ambiziosamente “Padiglione Yarat”. “Ho cominciato a frequentare artisti come Faig Ahmed qualche anno fa, vivevamo nello stesso quartiere e spesso andavo al suo studio. Mi colpiva questo gruppo di ragazzi, stavano seduti e non facevano nulla, almeno per me quello era far niente, a quei tempi!”, ci racconta Farid. “Alla fine ho deciso che volevo diventare un artista anch’io. Ho comprato una videocamera e ho cominciato a girare un video su un macellaio che taglia carne [il video ‘Inertia’ ha poi partecipato alla Biennale, N.d.R.]. Mi considero una persona molto fortunata, credo tantissimo in me stesso e so di poter riuscire a dare il meglio se davvero lo voglio. E poi vivo in Azerbaijan: è un momento di grande fermento, di rapido cambiamento e di grandi opportunità per tutti noi”. Fahig Ahmed ha invece studiato scultura all’Accademia delle Arti di Baku e ha seguito corsi come art curator in Georgia e in Russia. Poco più che trentenne, è fra gli artisti più acclamati nella scena dell’arte contemporanea dell’Azerbaijan, autore di provocatori tappeti-scultura, pixelati, decostruiti, smontati, reinventati. L’ultimo riconoscimento è la candidatura al Jameel Prize, il prestigioso premio lanciato dal Victoria & Albert Museum di Londra assieme alla fondazione saudita Abdul Latif Jameel Community Initiatives, e che a dicembre presenterà i finalisti e il vincitore 2013. I suoi lavori hanno partecipato alla Biennale di Venezia, a mostre del V&A, al Maxxi di Roma, alla Biennale di Sharja, e sono battuti da Christie’s e Sotheby’s. “Mi interessa molto l’influenza che un oggetto ha all’interno di uno spazio, e allo stesso tempo il rapporto fra tradizione e cambiamento”, ci racconta Faig nel suo studio, all’interno di un palazzo della città vecchia. “Il tappeto è parte integrante della nostra tradizione. Anche se una persona ha una casa molto moderna, all’interno troverai sempre un tappeto. Ecco perché ho pensato di lavorare su questi oggetti, modificandone in parte la struttura tradizionale. Con il mio lavoro voglio dimostrare che si può intervenire anche sulle tradizioni più forti, cambiarle, che anzi in questo modo prendono vita nuova”. E in un Paese che sta ponendo le basi dell’arte contemporanea, le reazioni sono interessanti. “Alcune persone lo prendono come un gioco. Alcuni si offendono, non concepiscono che un tappeto tradizionale possa essere snaturato. Ma fortunatamente sono una minoranza”.
Complessità e cambiamento sono altresì al centro della ricerca della fotografa Fakkhriyya Mammadova. Anche lei ha fatto parte del Padiglione azero alla Biennale, con una grande installazione di istantanee scattate durante un matrimonio tradizionale, incorniciate in bolle dorate. “Oggi internet e la globalizzazione hanno causato nella gente tanta pigrizia, si ha l’impressione di poter guadagnare, avere tutto senza fare nulla. Per me essere artista vuol dire catturare frammenti di realtà che esprimono felicità e solitudine al tempo stesso, che documentano la realtà nelle sue contraddizioni più vive”. Il sogno di Fakkhriyya, che lavora anche come grafica per Yarat, curandone le pubblicazioni, è realizzare la sua prima mostra personale, forse in città, ma – perché no? – meglio all’estero.
Tra i progetti che Yarat ha nel cassetto c’è l’apertura nel 2014 di un grande centro dedicato all’arte contemporanea, annunciato in anteprima ad Artribune. “Sarà un’architettura su due livelli nella zona del porto, progettata da un architetto locale [ma forse ci sarà lo zampino anche di un italiano, N.d.R.], con un piano che ospiterà la collezione permanente e uno dedicato a esposizioni temporanee”. Il programma educativo rimarrà di primaria importanza e – conclude Aida Mahmudova – “non sarà un vero e proprio museo di arte contemporanea, ma un luogo dove si potrà vedere e conoscere molto dell’arte di oggi”.
Fra le attività future, anche forti sinergie e collaborazioni fra Yarat e la Fondazione Heydar Aliyev, la più grande organizzazione non governativa dell’Azerbaijan, diretta dalla fascinosa first lady Mehriban Aliyeva, che fin dalla sua fondazione nel 2004 attua progetti su vasta scala per promuovere la cultura e l’immagine del Paese nel mondo (sua la paternità del Padiglione Azerbaijan alla Biennale di Venezia). Gli artisti di Yarat stanno inoltre lavorando anche a mostre e progetti espositivi da mettere in scena nel nuovissimo Heydar Aliyev Center. Anche se il nome Alijev è il più ricorrente in Azerbaijan, non c’è nessun legame tra la Fondazione e la costruzione dell’Heydar Aliyev Center progettato da Zaha Hadid, un progetto interamente finanziato dal governo e inaugurato il giugno scorso con la mostra Andy Warhol: life, death and beauty, curata dal curatore italiano Gianni Mercurio. Il centro è uno spazio dal grandissimo respiro architettonico, luogo magnetico che rappresenta una delle scommesse per il futuro culturale e artistico della città e del Paese. “Avere nomi come Zaha Hadid che firmano architetture di rilievo è sicuramente un modo per farsi conoscere a livello internazionale” ci dice Sabina Shikhlinskaya, “ma sono d’accordo con Alexandr Schwartz – partner di David Chipperfield Architects, che con Yarat abbiamo invitato a Baku per una lecture sul futuro delle architetture museali – quando dice che un museo non può essere solo un’architettura, ma che prima ha bisogno di una collezione, che deve essere creata e preservata, e solo successivamente presentata al pubblico. Aggiungo che esiste però un’altra via: almeno qui abbiamo una bella architettura che un giorno potrà diventare un museo. In Armenia e in Georgia non hanno né un museo né una collezione, e a Sarajevo hanno una bellissima collezione, ma non hanno un bel luogo dove esporla. Avere un luogo è già qualcosa, l’importante è cominciare”. E qui a Baku il futuro sembra cominciato.
Lisa Chiari e Roberto Ruta
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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