Beatrice Pediconi, da New York alla Collezione Maramotti
Un viaggio da Roma a New York e un ritorno in Italia carico di esperienze e ispirazioni. Beatrice Pediconi è ora in mostra alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia con una videoinstallazione ambientale affascinante e ambiziosa. Artribune l’ha intervistata.
Tre anni fa lascia Roma, città natale, per trasferirsi a New York in cerca di nuovi stimoli professionali e possibilità creative. L’esperimento ha successo e così Beatrice Pediconi (Roma 1972) torna in patria da protagonista con una mostra personale presso la Collezione Maramotti. Un progetto ambizioso, una video installazione ambientale e site specific, dal titolo 9′ / Unlimited (visitabile fino al 31 gennaio 2014), che Marina Dacci, direttrice della Collezione, introduce così: “La mostra evidenzia come sia possibile fare un altro tipo di pittura, pittura che potremmo definire ‘mutante’ […] spostata su un piano percettivo differente da quello a cui ci ha abituato la pittura tradizionale”. In questa mostra, Beatrice Pediconi mette a frutto sette anni di lavoro, coniugando pittura, fotografia, installazione video, musica e sperimentazione. Il tutto basato sulla performatività della materia, alla quale s’ispira fin dall’inizio della sua carriera.
Perché hai lasciato Roma?
Per motivi personali.
Perché hai scelto New York?
Avevo amici artisti che mi consigliavano di andarci. Poi ho vinto delle residenze d’artista e una sequenza di occasioni stimolanti mi hanno fatto decidere di rimanere.
Pensi che se fossi rimasta in Italia oggi saresti ugualmente in questa mostra e con le stesse prospettive di carriera?
Ho fatto delle esperienze che in Italia non avrei potuto fare, anche dal punto di vista pratico.
Ad esempio?
Nell’installazione i filmati sono girati con una cinepresa Red ad altissima definizione e molto costosa, che si usa per il cinema.
Com’è stato possibile?
Feci una mostra all’Italian Academy a New York. Un pianista canadese, James Carson, vide il mio primo video e mi chiese di collaborare con lui, dandomi in cambio la Red e un operatore per alcuni giorni. A New York ci sono meno barriere ed è facile entrare in contatto con artisti di altre discipline. Ho anche realizzato la copertina per il nuovo LP degli Swans, un gruppo rock americano, e lì ho preso coscienza dell’interesse dei musicisti per il mio lavoro.
Rispetto al progetto per la Collezione Maramotti, quanto ha influito vivere nella Grande Mela?
Credo che abbia influito anche sul mio rapporto con la sperimentazione. Un anno fa, sono stata invitata a partecipare a Lux, an Art and Science Exhibition, una mostra alla Cornell University di Itaca (NY), finalizzata a evidenziare il rapporto tra arte e scienza. Organizzarono una conferenza con cinque artisti invitati a interagire con altrettanti scienziati. Io ero in colloquio con Roald Hoffman, premio Nobel per la chimica: un’esperienza per me molto significativa.
Il tuo lavoro trae origine da una chimica domestica. Che rapporto hai con questa scienza, la stai studiando?
No, assolutamente. Uso un approccio più empirico. Per ogni nuova serie cambio le sostanze con cui scelgo di dipingere e non c’è nessuno studio alla base. Ogni volta è una sorpresa, sono stupita da quanto accade e questa sensazione di meraviglia vorrei trasmetterla all’osservatore.
Lo stupore e la meraviglia sono anche concetti metafisici, che Socrate pone all’origine della filosofia.
La natura è meravigliosa e crea delle forme che sono più belle di quelle che l’uomo possa mai fare.
Sei un po’ alchimista, ritrai la performance della materia che, nella sua domesticità, ha qualcosa di grandioso…
L’acqua reagisce a qualsiasi mio movimento e stimolazione, è un elemento che si muove, è viva, è come se io avessi un partner che ogni volta dialoga con me. Mi piace il fatto di non controllare tutto, che ci siano reazioni inattese e casuali.
Credo che New York ti abbia resa un po’ come è lei: più diretta, coraggiosa e sperimentale. E forse anche più rude. In “Corpi sottili” veniva fuori più il disegno, adesso cosa cerchi nell’immagine finale?
Mi piace non avere il controllo totale dell’opera o della sua interpretazione. Non voglio imporre una mia lettura. Lascio che le interpretazioni si generino liberamente.
L’installazione in mostra, rispetto alle tue serie precedenti di “Corpi sottili”, “Untitled” e “Red”, usa il mezzo video per registrare quella trasformazione che si carica di significati emotivi, mentre la fotografia non può coglierli, forse, perché è più estetizzante.
L’acqua racconta un dinamismo, un movimento, un’instabilità, che è quella in cui noi tutti viviamo. In Italia la lettura è più formale, mentre a New York è più importante l’origine concettuale del lavoro. Se poi risulta una bella immagine, tanto meglio. Noi italiani abbiamo una profonda eredità culturale, la bellezza è ovunque, e forse è più naturale per l’artista avere un movimento, nel disegno, dotato di una migliore estetica. Ma a me interessa creare una sostanza in movimento, vedere i suoi tempi di reazione e raccontare qualcosa che ha una sua evoluzione e non si ferma.
Le tue fotografie non sono mai still da video…
Per me è inconcepibile, sono due cose diverse. La fotografia ferma l’azione il video ti racconta tutto. Non ha senso a posteriori staccare un’immagine, sarebbe un’operazione estetica.
Che rapporto hai con la pittura?
Adoro andare alla ricerca di differenti materie e mischiarle con tempere e oli, renderle fluide, estrarre colori da sostanze organiche e vegetali per poi contaminare una superficie in movimento ed entrare in un altro mondo. È pittura?
Hai concepito 9′ / Unlimited come una camera in cui immergersi, che passa dal bianco totale al nero più profondo. Si vede bene la tua passione per la dualità.
È vero, sono ossessionata dall’idea del doppio, il lato negativo del positivo, la coesistenza degli opposti, la bellezza nella distruzione, la gioia nella sofferenza, la trasformazione di uno stato all’altro per poi ricominciare da capo. I miei video sono sempre in loop: un ciclo continuo. Pensa alla bellezza agghiacciante della bomba atomica: produce la massima distruzione eppure crea una forma di rara bellezza. Il che rende tutto ancora più crudele. Questi due aspetti, nel loro coesistere, creano un dilemma. Da dove vengono?
Il video dell’installazione è quasi un piano-sequenza, ha un solo stacco, quindi non è un video montato ma è la ripresa “in diretta” di una performance della materia, che tu controlli fino ad un certo punto. Ti prepari e, consapevole delle sperimentazioni fatte prima, metti in scena lo spettacolo della materia, così come essa si presenta. Dimostri un grande rispetto concettuale per la materia, non volendo farla essere altro da sé.
È l’unico modo per raggiungere quella sorpresa che cerco e che vorrei trasmettere al pubblico. È ovvio che io decido come partire, ma non ho il pieno controllo del processo. Nella video installazione ci sono momenti che forse non sono così belli esteticamente, ma trovo che siano meravigliosi nella loro casualità.
Come quando, all’improvviso, arriva il nero dallo sfondo e si apre come un fiore nel bianco.
Non ci potevo credere, vivo questi momenti come un miracolo, come se da lassù qualcuno mi avesse regalato questa forma. Capisco che accade per via della diversa compattezza delle sostanze e per il loro attrito. Però quel fiore non verrebbe più così neppure riprovando migliaia di volte.
Da dove nasce l’idea di avvolgere il fruitore?
Dalla prima visita alla Collezione Maramotti. Mi dette la sensazione di trovarmi in un tempio dell’arte, dove puoi prendere il tuo tempo davanti a un’opera, in un silenzioso protettivo. Mi piacque pensare a un luogo che fosse quasi fruibile da una persona alla volta.
Nelle polaroid, esposte nella prima sala, si vede bene il tuo tratto fortemente sperimentale.
Nelle polaroid questa volta ho usato più materie e mischiato molte più sostanze, arrivando anche a sporcare l’immagine finale. Non mi interessa la forma della composizione ma la contaminazione. Lasciando la natura fare il suo corso si creano mondi meravigliosi e diversi. La polaroid è istantanea ed è forse il mezzo più espressivo per registrare tale ricerca.
Il tuo lavoro mette in relazione formale due dimensioni estreme: il micro e il macro. Anche questo allestimento lo dimostra.
Volevo esporre due aspetti diversi del mio lavoro che hanno origine dalla stessa vasca d’acqua. Passare da una sala enorme con piccole polaroid, a una sala piccola dove grandi immagini ti sovrastano. Nella prima devi fare lo sforzo di attraversare la sala e di andare a vedere, mentre nell’altra sei passivo e totalmente invaso. Sono due aspetti totalmente antitetici.
La mostra è nata per la Collezione Maramotti, come si è sviluppato il rapporto con il collezionista?
Durante l’anno e mezzo di formazione del progetto, nei momenti di dubbio mi ha suggerito delle porte da aprire, al di là delle quali ho sempre trovato strade interessanti da percorrere per continuare la ricerca e trovare le soluzioni che cercavo.
Ad esempio?
Dovevo realizzare un libro d’artista che potesse raccontare la mostra. Non l’avevo mai fatto e Luigi Maramotti mi suggerì di andare a vedere l’esposizione di Ed Ruscha da Gagosian a New York. Una serie infinita sospesa di “libri/opere”. Uscita di là, ho pensato: azzeriamo tutto, non si tratta di libro ma di materia. Fondamentale è stato anche il supporto vitale, sensibile e attento di Marina Dacci, la direttrice della Collezione.
Come hai concepito il libro?
Come una scatola che rappresenta il volume dell’installazione video. Un contenitore da scoprire piano, per ricreare anche il percorso della mostra e le varie parti integranti di tutto il mio progetto. Non ci sono testi critici, ma una poesia haiku di Momoko Kuroda, una formula chimica, scritta dal chimico della conservazione Andrew Lerwill e una partitura musicale di Lucio Gregoretti che, metaforicamente, ne accompagnano le varie fasi. Sono tutte nate da collaborazioni e incontri un po’ magici.
Nicola Davide Angerame
Reggio Emilia // fino al 31 gennaio 2014
Beatrice Pediconi – 9’/Unlimited
COLLEZIONE MARAMOTTI
Via Fratelli Cervi 66
0522 382484
[email protected]
www.collezionemaramotti.org
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