Bilancio di un festival. Luigi Fassi e lo steirischer herbst
Ennesimo italiano all’estero, Luigi Fassi è al suo primo anno nella veste di curatore del settore arti visive dello storico steirischer herbst di Graz. A una decina di giorni dalla chiusura dell’ultima mostra, abbiamo fatto un bilancio con lui. Guardando al 2014.
Luigi, facciamo un bilancio di questa tua prima edizione allo steirischer herbst. E cominciamo dai numeri. E dopo il dato “bruto”, dacci la tua interpretazione di questi stessi numeri. Insomma, sei soddisfatto? È andata come ti aspettavi? Quali saranno le mosse per il prossimo anno, alla luce di questi risultati?
Abbiamo avuto 49.548 visitatori complessivi alle produzioni del Festival, con 1.110 progetti realizzati e oltre 700 artisti, teorici e lecturer da oltre 47 Paesi. Tutti concentrati in 24 giorni, mentre Liquid Assets. In the Aftermath of the Transformation of Capital, il principale progetto espostivo di arte visiva del Festival, è proseguito sino al 1° dicembre. Tale prolungamento è un esperimento mai realizzato prima su cui avevo puntato sin dall’inizio, estendere cioè la mostra oltre la fine temporale del festival.
Il bilancio è stato ottimo davvero! Abbiamo avuto più visitatori complessivi alla mostra, più giornalisti, più recensioni, più visitatori internazionali, mentre al tempo stesso i visitatori locali sono tornati molte volte a visitarla. Si è così trasmessa l’abitudine che anche in un festival i progetti non si consumano in una sola visita, magari durante l’opening, ma li si può visitare più volte, entrando più a fondo nel rapporto con le singole opere e il loro insieme. In tal senso, chi comprava il biglietto d’ingresso per Liquid Assets a 5 euro ha ricevuto una copia del catalogo e conservando lo stesso biglietto poteva tornare quante volte voleva a visitare la mostra.
Fiore all’occhiello di Liquid Assets è stato poi l’essere presentata in una versione ridotta (7 opere video) ad Atene come sezione della Athens Biennale 2013, Agorà. Con Katerina Gregos, che ha co-curato con me la mostra, avevamo avviato prima dell’estate uno scambio con i curatori della Biennale greca, impegnati a lavorare su temi simili ai nostri (come gli artisti stanno indagando l’astrazione crescente del capitalismo finanziario e le sue conseguenze sulla nostra idea di democrazia e cittadinanza). Ciò ha portato alla decisione di portare una parte della mostra ad Atene. La serata inaugurale della Biennale a metà settembre è stata straordinaria, con un’energia e una determinazione da parte degli organizzatori e del pubblico della città che non pensavo di trovare ad Atene.
Entriamo un poco nel merito. La prima cosa che colpisce il visitatore esterno e a digiuno del festival è la capillarità della sua presenza in tutta Graz. Ci racconti a grandi linee la storia dello steirischer herbst e – se è accaduto – come hai incrementato questa capillarità con il tuo intervento?
Lo steirischer herbst, primo in Austria, è nato nel 1968 con la volontà di dedicarsi alla produzione di opere d’arte in termini interdisciplinari. Negli anni il festival ha prodotto arte visiva, teatro performativo, nuova musica, danza e teoria critica. Sin dall’inizio gli sforzi economici sono stati dedicati a questa attività produttiva (con esiti artistici leggendari, penso ad esempio a Und Ihr habt doch gesiegt di Hans Haacke nel 1987 o all’intervento di Christoph Schlingensief nel 1998) e anche per questo il festival ha solo degli uffici ma non delle sedi di presentazione. Ogni anno così si riparte da zero e si va all’esplorazione della città trovando teatri, edifici dismessi e altri luoghi dove ospitare gli eventi e le produzioni. In quasi mezzo secolo, lo steirischer herbst ha così invaso e consumato la città di Graz, tanto che è difficile trovare quartieri e strade dove non siano accaduti eventi del festival. Ma questa strategia rende anche difficile e impegnativo trovare nuove sedi ogni anno.
Nell’edizione appena conclusa abbiamo occupato come Festival Zentrum la vecchia dogana di Graz, lo Zollamt, abbandonato da anni e trasformato da cima a fondo con la collaborazione artistica dell’Atelier le Baltò di Berlino. È diventato un luogo irriconoscibile, un distretto culturale temporaneo aperto sino a tarda notte, rafforzato dalla presenza dei nostri vicini di Explosiv, uno storico club di musica punk di Graz che ha ospitato parte degli eventi (come i workshop). Per molti abitanti di Graz, l’esperienza dello Zollamt è stata così positiva che ci hanno chiesto di rimanere li anche nel 2014. Ma rimaniamo legati alla tradizione: ogni anno si cambia e per il 2014 abbiamo già individuato un luogo meraviglioso, in pieno centro, per il Festival Zentrum e i progetti di arte contemporanea.
Il bouquet di mostre era veramente ampio. Cito fra le tante, secondo un mero gusto personale: Romuald Hazoumé alla Kunsthaus, la collettiva …Was ist Kunst?… alla Künstlerhaus, le personali alla Grazer Kunstverein, e naturalmente la main exhibition che hai curato insieme a Katerina Gregos, Liquid Assets. Come funziona il coordinamento tra festival, musei, curatori esterni e organizzazione interna?
La logica è simile a quella di una biennale: il festival tiene le fila e prova a coordinare e promuovere la collaborazione di tutte le altre (moltissime) istituzioni artistiche della città. Per far questo scriviamo un tema generale dell’anno (intitolato Liaisons Dangereuses nel 2013) e oltre a lavorarvi noi direttamente come festival invitiamo gli altri musei e spazi a usarlo come avvio concettuale per i loro progetti. Le proposte migliori vengono poi coprodotte da noi, generando così una parziale ridistribuzione delle risorse del festival in città. Graz in tal senso è un caso forse unico: dal Grazer Kunsverein a Rotor, dal Kunsthaus a Camera Austria, da Esc al Künstlerhaus, per citarne solo alcuni, la città, con una popolazione residente inferiore ai 300mila abitanti, si è dotata nel corso dei decenni di un’abbondanza di centri di produzione artistica che ha fatto crescere un pubblico esigente e molto attivo.
Raccontaci qualcosa dei workshop. C’era anche Beirut, associazione del Cairo che parla almeno in parte italiano, grazie ad Antonia Alampi.
Pensare e organizzare i workshop è stata per me una delle attività più interessanti quest’anno. L’obiettivo era aprire i temi trattati dal festival ai contributi di diversi pensatori e operatori culturali. Alanna Lockward, berlinese di origine caraibica, ha ad esempio curato un workshop sui modelli più avanzati di ricerca in ambito decoloniale, introducendo i partecipanti alla decostruzione del pensiero illuminista e alla riscrittura della storia europea da una prospettiva decoloniale. Adoperando costantemente nel suo metodo materiali visivi di artisti contemporanei per illustrare metodi e approcci di ricerca sul tema dell’Afropean Decoloniality, Alanna Lockward ha aperto prospettivi inedite e complesse ai suoi partecipanti. Il colombiano Hector Aristizabal ha diretto un intensissimo workshop teatrale sul Theatre of the Oppressed, rielaborando le tecniche di Augusto Boal per parlare di violenza, traumi e liberazione. L’italiano Giovanni Leghissa ha introdotto i partecipanti alle sue ricerche sulle radici filosofiche del neoliberalismo, mentre Jens Maier-Rothe e Antonia Alampi, rispettivamente il co-fondatore e la curatrice di Beirut, un giovane spazio di produzione artistica in Egitto, hanno curato un workshop per esplorare diversi modelli istituzionali e mostrare come un’istituzione artistica stessa possa essere trasformata in un’opera d’arte, a partire dal suo statuto giuridico-fiscale.
Tutti i workshop sono stati poi progettati lanciando un call internazionale rivolto ai potenziali partecipanti e operando inoltre mediante delle partnership con scuole e istituzioni educative, dall’Accademia di Malmö in Svezia a quella di Ramallah in Palestina, dalla Sandberg School di Amsterdam al PEI di Barcellona. In diversi casi abbiamo potuto dare borse di studio per invitare a Graz studenti che altrimenti non avrebbero avuto possibilità partecipare.
Sono stato a Graz durante la tre giorni di convegno Liaisons dangereuses. Dal mio punto di vista è stata un’esperienza molto istruttiva, dove si è imparato, discusso, divertiti. Un mix pressoché perfetto, niente di professorale ma nemmeno la consueta sfilata di interventi slegati uno dall’altro e autocelebrativi. Tu che feedback hai avuto?
Ho pensato il convegno Liaisons Dangereuses. Seeking Alternatives in Trembling Times in termini interdiscipinari per provare a riflettere con acribia teorica sui modelli sociali prodotti dal neoliberalismo e raccogliere opinioni diverse. I partecipanti sono stati oltre 30, dall’Europa, dall’Africa e dal Nord America. I momenti per me decisivi sono stati tanti, come il confronto tra Sam Gindin, ex direttore del sindacato dei lavoratori dell’automotive di Toronto, e il filosofo Giovanni Leghissa, o tra Lieven De Cauter, teorico e attivista di Brussels, e Erik Olin Wright, presidente dell’associazione dei sociologi statunitensi. L’obiettivo è stato mettere in dialogo voci tra loro completamente sconosciute e avvicinare così documentaristi, curatori, filosofi, sindacalisti, psicoterapeuti e artisti. I feedback sono stati molto positivi, è stato difficile rimanere negli orari previsti, le discussioni avrebbero potuto continuare ben oltre i tre giorni (pur lunghissimi, dal mattino alla sera). Ma ora si è avviata una serie di inviti a catena tra i partecipanti, gli scambi continueranno in giro per il mondo.
Il taglio politico/attivistico del festival mi pare sia sintetizzato dall’opuscolo How to expropriate money from the banks di Núria Güell. Però anche in questo caso era chiaro sin dall’inizio che non si trattava di mettere in mostra o attorno a un tavolo meri velleitarismi. Tu cosa pensi del nodo arte/politica/attivismo?
Il nodo arte/politica/attivismo è al centro degli interessi del festival in questo momento ed è stato declinato in modi molto diversi in diverse produzioni e riflessioni, anche molto distanti tra loro. Io continuo a credere in una distinzione tra queste sfere: i loro presupposti ideali posso essere simili, ma gli obiettivi sono differenti. L’arte non ha un’agenda temporale come la politica e l’attivismo e si muove su terreni più sottili, ambigui e indecifrabili.
Anche se non ne sei responsabile, almeno un cenno alla parte di performing arts e di musica. Sono stato a una serata di Musik Protokoll e devo dire che sono rimasto stupito dal coraggio della programmazione, sia per il tasso di sperimentalismo che per la quantità di giovani sul palco, fra i compositori e in sala.
Anche qui vale il principio del festival: ricerca globale, produzione diretta e presentazione di voci nuove. Nel 2014 il Musik Protokoll crescerà ancora e avrà più visibilità di quest’anno.
Chiudiamo nella maniera più classica: cos’hai in mente per il prossimo anno? Certo, è presto per dirlo, ma a qualcosa starai pensando…
Il tempo stringe e il lavoro non si è mai interrotto. Da una settimana si è chiusa la mostra, stiamo cucinando il programma del 2014 e avviando una quantità enorme di produzioni, diverse delle quali di arte contemporanea, fuori Graz, nella regione, in piccole città della Stiria. È un impegno complesso che il festival si è preso con la politica: espandere gli eventi e le produzioni al territorio extraurbano. Ci sarà poi ancora una grande collettiva a Graz, come Liquid Assets quest’anno, costruita con una logica di commissione e produzione di nuove opere. Ci sto lavorando ed entro gennaio si definirà la struttura di massima del progetto. Come detto, lo steirischer herbst ha l’ambizione di commissionare e produrre costantemente nuove opere d’arte e questa sarà ancora la chiave del lavoro curatoriale e organizzativo nei prossimi mesi.
Marco Enrico Giacomelli
http://www.steirischerherbst.at/
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