Disegnare nello spazio. Incontro con Tatiana Trouvé
Da Benjamin a Boetti, passando per Le Corbusier e Pessoa. Artribune in conversazione con un’artista lucida e meticolosa, tanto nel lavoro quanto nei riferimenti teorici e culturali. Tatiana Trouvé è in mostra a Roma, da Gagosian, fino al 4 gennaio.
In un’intervista citavi il concetto di “micro-evento” formulato da Walter Benjamin. In effetti, molte tue installazioni sembrano ricreare la dimensione sospesa dei sopralluoghi, in cui tracce di eventi anche minimi possono rivelarsi cruciali. È in questa chiave che costruisci le tue visioni?
Parlando di “micro-eventi” mi riferivo al titolo di un mio lavoro in cui indicavo un’ora e un luogo specifici, ma non segnalavo quale fosse l’evento, né chi fosse il protagonista dell’evento in questione. Mi piaceva quest’idea perché penso che una parte della nostra storia, relativa a effetti anche importanti che si sono prodotti, si sia determinata a partire da incidenti, atti involontari o decisioni assunte da persone che non avevano il potere di decidere. In questo senso, evidentemente il mio lavoro è fatto anche di indizi che – come lo descrivi tu – aprono a differenti interpretazioni della realtà.
Ad esempio, nella mostra che ho fatto sempre da Gagosian, a New York, c’era un’installazione, nella prima sala, composta da radiatori sotto i quali erano poggiate delle scarpe. Un gruppo di visitatori, avendo notato quelle scarpe – che in realtà erano in bronzo, mentre i radiatori erano in cemento –, ha pensato di dover visitare la mostra togliendosi le proprie scarpe. Contemporaneamente, un altro gruppo stava invece visitando la mostra con le scarpe indosso. A un certo punto i due gruppi si sono guardati vicendevolmente, in modo molto strano: entrambi si stavano interrogando sul modo corretto di fruizione dell’installazione. Quello che mi è piaciuto in questa storia è che, mentre per alcuni bisognava aderire a una richiesta partita dall’opera, per altre persone c’era un vero distacco. Si è creata così una sorta di performance; un “micro-evento” che non mi aspettavo per niente, e che ha arricchito di senso l’opera.
Sei stata definita “creatrice di spazi criptici” e in relazione al tuo lavoro sono stati usati i termini “sinistro” e “perturbante”. Ti dà fastidio essere percepita come ideatrice di atmosfere di questo tipo? Lo trovi fuorviante rispetto alle intenzioni della tua ricerca?
Non cerco di creare atmosfere; con il mio lavoro penso piuttosto di creare delle dimensioni, dei mondi composti da diverse temporalità e diversi spazi. Quello che mi interessa è la percezione di un universo.
Che funzione assolve nei tuoi lavori la dominante cromatica del nero?
Sono in nero anzitutto gli elementi in bronzo, che costituiscono parti disegnate nello spazio. Ma ci sono anche sculture in altri materiali con dei colori: in cera, in cemento eccetera. In più c’è il rame, che è lasciato così com’è: è un conduttore e in genere rilega diversi punti delle installazioni ambientali. L’utilizzo del nero non è legato a un effetto di stile: per me il nero è inchiostro; è disegnare nello spazio.
Nelle tue visioni è presente anche il modernismo. Ma non si avverte – come spesso accade – un eccesso di fascinazione rispetto ad esso.
Nel mio lavoro la spazialità è importante, perciò non potevo fare finta che non esistesse il modernismo. Per me il modernismo rappresenta l’ultimo momento in cui si è davvero disegnato lo spazio, proprio con la matita intendo. Se osservi le architetture di oggi, vedi immediatamente che sono state concepite lavorando al computer. Invece, guardando certe architetture di Le Corbusier capisci chiaramente che sono state ideate disegnando. Ritengo che si faccia così spesso riferimento al modernismo analizzando il mio lavoro per via dell’importanza che ha in esso il disegno.
Parliamo di questa mostra. È stato agevole relazionarsi con uno tanto spazio unitario, immediato e monumentale come la sala ovale della sede romana di Gagosian? Oppure sono più congeniali al tuo lavoro gli spazi labirintici? In cosa è diversa questa personale dalle altre che hai fatto?
Stavolta non ho modificato nulla dell’architettura dello spazio espositivo, forse per la prima volta. Ciò non è dipeso dalla conformazione di questo spazio. Per questa occasione ho scelto di presentare una serie di disegni, a cui stavo lavorando da un anno, che si rapportano direttamente con alcune sculture, anche per le proporzioni. Si tende a pensare – ed è un errore – che propormi in spazi speciali sia necessariamente inerente al mio lavoro. Ma è una supposizione infondata, perché ogni volta intervengo modificando anche radicalmente l’architettura. Nel mio lavoro la spazialità non è qualcosa che esiste prima dell’opera. Se gli spazi sono labirintici è perché lo richiede la strutturazione dell’opera.
Ora a cosa stai lavorando?
A una personale al museo di Bonn, focalizzata sul principio del “falso riconoscimento”, ossia sul fenomeno psichico per cui si ha l’impressione di vivere qualcosa che si è già vissuto [il cosiddetto “déjà-vu”, N.d.R.]. Si ha così la possibilità di vivere contemporaneamente il passato nel presente. In questa mostra tutte le opere si ripresentano e variano – perché l’architettura doppia e simmetrica di questo museo lo permetteva – e nel percorso si torna sempre al punto di partenza. Per l’occasione sono stati fatti interventi importanti, pensati specificamente per gli spazi del museo.
Sei nata in Italia ma hai vissuto in Senegal, in Olanda, in Francia (dove sei da tempo). Ti senti ancora italiana? Il senso della linea che caratterizza il tuo lavoro è riconducibile a influenze della tradizione artistica italiana?
Italiana lo sono veramente, per metà. L’italiano è la mia lingua materna, anche se oggi forse lo parlo non molto bene, e con un accento. Alcuni artisti italiani sono stati molto importanti per me. Come Boetti, che è stato decisivo, quando ero molto giovane, nella mia decisione di essere un artista. Sì, penso che una filiazione rispetto all’arte italiana nel mio caso si possa rinvenire, almeno sul piano concettuale. In generale, non posso visualizzare un’estetica dell’arte italiana; riesco invece a visualizzare un pensiero dell’arte italiana: un pensiero poetico e concettuale forte, che credo mi abbia influenzato.
Coltivi amicizie con intellettuali o artisti di altre discipline? Oltre all’arte visiva quali ambiti nutrono la tua sensibilità e il tuo immaginario?
Sono legata ad alcuni filosofi e critici con cui ho delle belle amicizie artistiche, tra cui Christophe Kihm, Robert Storr, Richard Shusterman, Elie During, Gianni Motti. La lista è lunga, senza contare coloro che non ci sono più, con i quali lo scambio è continuo. Vedi, tutte le persone che fanno delle cose importanti lasciano comunque dei mondi, nei quali si possono sempre di nuovo incontrare. In questi giorni ad esempio sto rileggendo Il libro dell’inquietudine di Pessoa. Pessoa è morto da un po’, ma per me è completamente vivo, visto che ogni sera ho un appuntamento con lui.
Parliamo di estetica. Ritengo personalmente che il paradigma della bellezza come incontro tra elementi incongrui – risalente a Lautréamont e propugnato da Breton e dai surrealisti, e in altri termini da Duchamp – sia un riferimento tuttora centrale nell’arte visiva, tanto è vero che spesso non si fa che formalizzare delle ambivalenze. Sei d’accordo?
Tanto lo choc ingenerato dalla presenza di elementi eterogenei quanto l’indagine sulla frontiera tra arte e non arte compiuta da Duchamp costituiscono principi poetici della modernità. Bisogna capire in quali condizioni questi principi reimpiegati oggi hanno ancora un senso. Penso però che si tratti di un’arma a doppio taglio per gli artisti.
Il rischio di una deriva manierista c’è…
Sì, assolutamente. D’altro canto, penso anche che se ci si limita a leggere il lavoro solo su un piano formale il rischio di rinvenire del manierismo ci sia sempre. Nel mio caso, ogni opera ha un contenuto che gli è proprio; si tratta di ricerche ogni volta ben distinte, e non di declinazioni formali di un certo stile. Che poi ci siano anche una continuità e una riconoscibilità formale, credo sia normale.
Cosa può insegnare l’arte visiva? Un tipo di percezione forse?
In tema di percezione mi viene in mente una frase di Antoni Muntadas (“Attenzione! La percezione richiede impegno”) che ho incollato nel mio studio. Cerco sempre di considerare la questione della percezione. Ciò vale anche per me, per il modo in cui lavoro: ogni mia installazione ha una gestazione complessa, che si esaurisce solo nello spazio espositivo, per cui è sempre diversa da come doveva essere presentata, e se parli coi tecnici te lo confermeranno. Questo perché arrivando in un posto lo percepisci in modo diverso; ci sono cose che richiamano il tuo sguardo e che ti fanno pensare: “Ok, ci sono altre cose da rivelare”. Io non credo che l’arte possa davvero insegnare qualcosa, a parte forse un tipo particolare di percezione. Il bello – e la forza – dell’arte è che ha il valore che vogliamo dargli; per questo purtroppo è anche vittima di ogni tipo di speculazione. Forse bisogna imparare ad accettare il fatto che non ci può essere – e d’altronde non c’è mai stato – un modo univoco o “giusto” di percepirla, ma un modo plurale con cui riferirsi ad essa. Ciò che è davvero triste è voler rendere l’arte tematica e accessibile in modo così universale da ridurla a un puro spettacolo.
Pericle Guaglianone
Roma // fino al 4 gennaio 2014
Tatiana Trouvé – I cento titoli in 36.524 giorni
GAGOSIAN GALLERY
Via Francesco Crispi 16
06 42086498
[email protected]
www.gagosian.com
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