Gli Area e la musica contemporanea. Parla Paolo Tofani
La ristampa di Sony Music dei primi due album e il recente tour di concerti sono l’occasione per ricordare gli incontri con John Cage, la poesia sonora di Demetrio Stratos e i legami con le arti visive. Tramite le parole del chitarrista storico degli Area, Paolo Tofani. Lo abbiamo intervistato all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Dal 29 ottobre sono in vendita in tutti i negozi di dischi, a tiratura limitata e numerata, le prime ristampe del catalogo Cramps Records, a cura di Sony Music, rimasterizzate direttamente dagli Area – International POPular Group. Tre box, ognuno dei quali contenente il disco originale in vinile e le versioni in cd di Arbeit Macht Frei (con un poster e la sagoma in cartone della pistola contenuta nell’album originale), Caution Radiation Area (con cinque cartoline realizzate da Andrea Pazienza) e Cantare la voce di Demetrio Stratos (con un libretto a cura di Gianni-Emilio Simonetti, contenente lo studio sulla voce Hyde Park). In occasione della recente serie di concerti che hanno visto salire, per la prima volta, gli Area sul palco dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, abbiamo incontrato il chitarrista del gruppo, Paolo Tofani. Tra i brani in scaletta della serata romana, classici di un passato sempre attuale (Luglio, agosto, settembre (nero), Arbeit Macht Frei, ZYG, Cometa rossa, con ospite Maria Pia De Vito, Nervi scoperti, La mela di Odessa, Gerontocrazia/L’elefante bianco), accanto ai nuovi percorsi tratti dal più recente Live 2012 (Encounter #1, Skindapsos, Trikanta Veena suite, Canzone di Seikilos).
Nel 2012 è uscito per la collana POPtraits/Cramps Records un tuo bellissimo disco in collaborazione con Alvin Curran e Mauro Tespio. Quanto era profondo il coinvolgimento degli Area e di Demetrio Stratos con la musica contemporanea? Eri presente anche tu durante l’evento Il treno di John Cage?
Mi trovavo molto bene con Demetrio e, oltre alla dimensione umana, anche la sua sfera artistica era molto affascinante per me. Certo, c’ero anch’io su quel treno, è stata un’esperienza fantastica. Lì, Cage ha mostrato tutta la sua genialità, mettendo insieme una serie di eventi e facendoli accadere tutti nello stesso momento. La gente era sorpresa e affascinata dalle strane combinazioni di suoni che prendevano forma, ed era proprio la mescolanza dei differenti strati sonori a dare risultati interessanti.
Le tecniche di Cage con il tempo, poi, le ho messe un po’ in discussione. Non credo più al caos e al caso. Sono convinto che per fare un lavoro interessante, anche di interazione col sociale, ci debba essere una progettazione. Ecco perché il lavoro fatto con gli Area ai tempi di Gianni Sassi [grafico, intellettuale e co-fondatore della Cramps, insieme a Franco Mamone e Sergio Albergoni, N.d.R.] aveva, secondo me, più possibilità di lasciare dei segni tangibili sul sociale rispetto a quello di Cage, anche se lui ha stimolato milioni di persone, musicisti, artisti e sociologi ad affrontare il suono in un modo diverso. Sono convinto che una progettazione sia fondamentale nel gestire le libertà individuali, perché all’interno di un percorso ci si può muovere con maggiore autonomia – e questa era anche un’analisi di Adorno che mi trova decisamente in sintonia – soprattutto grazie alla pianificazione, evitando così la ripetizione.
Parlaci del tuo progetto Electric Frankenstein.
Electric Frankenstein è stato un divertimento consequenziale al mio trasferimento in Inghilterra e risulta quindi, ovviamente, coinvolto dal mood inglese. In quel periodo ho provato a rispondere a qualche annuncio del Melody Maker, dove cercavano dei chitarristi. Ho provato poi, a mia volta, con un paio di annunci che sono andati male, incontrando persone che proprio non sapevano suonare (almeno dal mio punto di vista). In seguito ho fatto dei provini anche con i Roxy Music, ma ho poi deciso di proseguire da solo. E devo dire che in quel periodo non era male. Ricordo una volta che Muff Winwood, fratello di Steve Winwood (nonché uno dei direttori artistici della Island Records), mi portò a sentire una persona. “C’è un altro musicista qui a Londra che sta facendo delle cose da solo proprio come te”, mi disse. Arrivati in questa cantina, entrando, mi trovai davanti Mike Oldfield alle prese con il suo lavoro. Questo tipo di approccio era nell’aria, ed è quindi ovvio che, a un certo punto, l’idea di suonare da solo mi sia sembrata la soluzione migliore, anche perché mi piaceva.
Come sei entrato a far parte degli Area?
Le canzoni di Electric Frankenstein avevano a che fare con le emozioni che ho provato nel passaggio dall’Italia all’Inghilterra. L’album è stato registrato in casa, la mia batteria era costituita di cuscini, avevo veramente pochi mezzi. Fortunatamente da lì a poco la Davoli italiana aprì una filiale a Londra – mi conoscevano già per il periodo precedente agli Area, quando ero ancora con I Califfi – e quindi mi hanno assunto per testare i loro strumenti, ricevendo così in cambio un po’ di tecnologia. È stato un lavoro che avrebbe potuto precludere delle porte a una carriera da solista abbastanza interessante, però il destino ha cambiato tutto quando la PFM è arrivata a Londra [i nastri di Electric Frankenstein furono registrati a Londra nel 1971 e pubblicati dalla Cramps nel 1975, N.d.R.].
Franco Mamone, il loro impresario, aveva finalmente capito dove mi trovavo, dopo che per più di un anno avevo interrotto ogni contatto con l’Italia, chiedendomi se volevo unirmi a questa nuova formazione di cui si stava prendendo cura, gli Area (anche se si rivelerà presto incapace di gestire un collettivo come il nostro). Gli chiesi allora da chi fosse formato il gruppo e lui mi rispose con dei nomi che non conoscevo, ad eccezione di Demetrio Stratos. Con lui, durante il periodo beat, abbiamo partecipato a delle manifestazioni insieme, Demetrio con I Ribelli, io con I Califfi. E quindi accettai. Ero un po’ stanco di essere da solo, anche se i miei progetti si stavano sviluppando bene, ma dato che la condivisione, l’interagire con gli altri è sempre auspicabile, ho cominciato a fare la spola tra l’Italia e Londra, fino a che non sono rientrato definitivamente. Da lì è cominciato il lavoro degli Area veri. Gli Area c’erano già, ma in una formazione che era ancora da definire.
Come nascevano i vostri lavori? In alcuni casi – Luglio, agosto, settembre (nero), Cometa rossa, L’elefante bianco – è possibile percepire echi di Don Ellis e della sua Bulgarian Bulge, un brano contenuto nell’album The New Don Ellis Band Goes Underground, caratterizzato da una scansione metrica dal sapore balcanico…
I brani erano stimolati da Gianni Sassi [di cui ricorre quest’anno il ventennale dalla scomparsa, N.d.R.] che ha avuto un effetto importante nella nostra evoluzione. A differenza di come si usava fare all’epoca – in quel periodo tutti i gruppi erano soliti rinchiudersi nelle sale prove, cercando di estrarre a fatica il meglio da lunghi tour de force –, lui, essendo un visionario, in grado di capire le idiosincrasie della realtà di quel momento storico, ci proponeva dei fatti che elaboravamo singolarmente, lasciandoci andare ognuno nelle proprie ricerche personali. Dopo un po’ di tempo ci si riuniva, si cominciava a tirar su le cose che sembravano più interessanti e alla fine quello che veniva fuori era proprio una musica collocata nel contesto perfetto della dimensione che volevamo mettere in evidenza.
Quindi Luglio, agosto, settembre (nero) e tutti i testi, che erano opera di Sassi sotto lo pseudonimo di Frankenstein (insieme a Sergio Albergoni), avevano una contestualità molto profonda anche nella scelta dei suoni. Una caratteristica ancora più evidente nei lavori successivi ad Arbeit Macht Frei [di cui ricorrono nel 2013 i 40 anni dalla pubblicazione, N.d.R.], come in Caution Radiation Area o Crac!. Proprio mentre eravamo impegnati a rimasterizzare Arbeit Macht Frei e Caution Radiation Area per la Sony, Fariselli mi faceva notare, durante l’ascolto di Caution, come fosse proprio quello il suono che noi dovevamo recuperare. Vedremo se ci riusciremo, il tempo ci ha cambiati profondamente.
Anche dietro a momenti come Il massacro di Brandeburgo numero tre in sol maggiore si nasconde la mano di Sassi?
In un certo senso sì, perché rappresentava in qualche modo il dissacrare, come si poteva fare solo in quel periodo, certi aspetti della musica classica, ed era anche un bel divertimento! Lui, quindi, ci lanciava delle idee, però non voleva interferire sul piano musicale, la musica era di nostra competenza.
All’interno della formazione sei sempre stato tu l’“anima elettronica” (penso ad esempio all’utilizzo del VCS 3). In che modo si è evoluta nel tempo la tua ricerca di espandere attraverso queste nuove fonti le sonorità della chitarra?
Una persona che mi ha aiutato ad aprirmi è stato certamente Derek Bailey. Già all’inizio, anche quando ero in Inghilterra, lavorando da solo avevo cominciato a utilizzare delle accordature insolite con la chitarra. Sono sempre stato impressionato dai colori e, a parte quello fisico dello strumento, il colore del suono della chitarra non mi ha mai soddisfatto pienamente. Quindi la scoperta della tecnologia, attraverso cui potevo avere a disposizione una tavolozza sonora molto più ampia, mi ha affascinato fin dall’inizio. Il famoso intro di Luglio, agosto, settembre (nero), fatto con il sintetizzatore suonando la chitarra, è stato un momento di grande felicità, perché era l’inizio di una scoperta che continuo tuttora a esplorare.
Potresti provare a spiegarci in cosa consistono le tecniche vocali “estese” studiate da Stratos e come ti sei avvicinato tu stesso alla vocalità?
Demetrio era una persona eclettica, non si limitava a fare delle ricerche che avevano a che fare con la vocalità standard. Lui voleva andare oltre, voleva capire meglio il suo strumento. Ha fatto degli studi ed è stato analizzato da diversi centri di fonologia (un paio di volte sono andato anch’io insieme a lui) ed era veramente soddisfatto di quello che scopriva. Era convinto che il suo lavoro lo avrebbe portato a esplorare nuovi ambiti musicali. Purtroppo, però, non c’è stato il tempo per arrivare più a fondo. Sarebbe stato per me molto interessante realizzare dei progetti con lui adesso, con la tecnologia che abbiamo oggi avremmo potuto creare qualcosa di veramente incredibile…
Recentemente ho fatto un concerto a Piacenza con Gianni Mimmo e Angelo Contini in cui non suonavo, se non un po’ l’iPad: tutta la generazione dei suoni la facevo con la voce, uno strumento, per me, che non ha bisogno di nient’altro. Ho imparato molto da Demetrio e, anche durante il periodo in cui non eravamo più insieme negli Area, con lui mi sono sempre trovato bene. Ero molto affascinato dal suo studio e mi sembrava naturale l’idea, nel futuro, di poter continuare a fare piccole ricerche sulla mia capacità di espressione vocale. Anche se negli Area uso la voce essenzialmente ne La mela di Odessa e Gioia e rivoluzione, non canto i pezzi di Demetrio, non avrebbe senso. Nella nostra reunion abbiamo scelto di non avere nessuno al suo posto, a parte qualche visita di Maria Pia De Vito.
Nel 1974 Stratos registra i Mesostics di John Cage che, pur non amando i dischi, rimase folgorato da quella voce ascoltata attraverso le incisioni. “La sua voce non è una voce in senso limitato, ma una voce che si estende al di là di ogni senso del limite”, affermò il compositore americano. Era davvero un poeta sonoro Demetrio Stratos e, non a caso, la Cramps aveva una collana, Futura, curata dal poeta sperimentale Arrigo Lora Totino, con cui l’etichetta di Gianni Sassi spaziava dalla poesia sonora ai futuristi…
Questa era la grandezza di Sassi, che voleva esplorare gli elementi più reconditi della ricerca, un po’ come faceva la Nonesuch Records americana. Credo, quindi, che sia stato un momento di grande bellezza estetica e di sperimentazione, quello, perché abbiamo avuto il privilegio di essere a contatto con personaggi che poi sarebbero stati fagocitati dalla realtà commerciale.
Sotto la supervisione di Sassi, che era l’art director dei vostri lavori, c’erano fotografi, designer e illustratori come Roberto Masotti, Marco Santini, Fabio Bortuzzo, Fabio Simion, Gian Michele Monti, E. Siber, Hepier ecc. Nel 2010 vede la luce, poi, The Essential Box Set Collection con le immagini di copertina tratte dai disegni originali, realizzati da Andrea Pazienza per il Catalogo Generale Cramps Records. Ci vuoi parlare di questo vostro rapporto con l’arte visiva?
Il rapporto con le arti visive era sempre presente. Ogni copertina degli Area ha vinto dei premi internazionali perché c’era, appunto, il lavoro di tutti questi grandi visionari dell’estetica della comunicazione, anche se nessuno di noi aveva una forte relazione con loro. A parte Roberto Masotti, che veniva a fotografarci durante i concerti, gli artisti erano completamente gestiti da Gianni. Però i risultati si vedono e sono davvero affascinanti, coerenti con il discorso musicale, tutte le copertine hanno un significato specifico che era collegato direttamente alla musica.
Paolo Tarsi
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