“Il segreto di un buon portfolio? Concepirlo come un libro”. Consigli da Mario Cresci
I consigli del maestro ligure Mario Cresci per costruire lo strumento di lavoro più prezioso per un fotografo: il portfolio. In una intervista esclusiva realizzata a margine di un seminario del master sull’immagine contemporanea di Fondazione Fotografia a Modena.
“Quando si costruisce un portfolio, la prima regola è che non esistono regole. Ma, oltre che delle immagini, bisogna tenere conto di altre caratteristiche: i testi, il formato, la carta, la stampa, la copertina. Mai come prima, infatti, a un giovane fotografo sono richieste conoscenze che non riguardano solo la fotografia: ad esempio, è necessario sapersi destreggiare con i programmi di grafica e design, così da personalizzare la propria proposta”. Parola di Mario Cresci, che abbiamo incontrato nei giorni scorsi a Modena, in occasione di un seminario per gli studenti del master sull’immagine contemporanea di Fondazione Fotografia, struttura presso la quale terrà, dal 24 al 26 gennaio, un workshop dal titolo Costruire un portfolio d’autore. Ed è proprio questo il tema che gli abbiamo chiesto di anticipare in questa intervista.
Perché un workshop sulla costruzione di un portfolio?
La ragione fondamentale è che è diventato ormai molto difficile trovare un workshop che tratti di questo argomento. Quello che ho in mente è un corso aperto, pluridisciplinare, come la mia formazione, d’altronde. Ho studiato design negli Anni Sessanta, e questo mi ha sempre spinto a pensare alla fotografia come qualcosa di esteso alle altre discipline, alla grafica soprattutto: quando si fa una fotografia, la fotografia non finisce lì ma devi gestirla. Perché la fai? A cosa serve? Dove la metti? Va su un giornale o verrà esposta in una mostra? Serve per un manifesto? È tutta questa serie di problemi sull’uso dell’immagine che cerco di sviluppare e risolvere durante il corso.
Ritieni che il concetto di portfolio abbia cambiato significato nel tempo? Cosa comportava anni fa, quando eri un fotografo emergente? E ora?
Il significato non è cambiato radicalmente. È vero, sono cambiate le tecniche e le opportunità produttive, ma il significato in fondo rimane lo stesso. Produrre oggi un portfolio, o un libro d’artista, significa affiancare gli strumenti della tecnologia digitale all’artigianalità e alla tradizionale manualità del mestiere. Ora è possibile produrre anche solo una copia di un portfolio o di un libro d’artista, che sia eccellente dal punto di vista estetico pur rimanendo un prodotto artigianale.
Inoltre, un altro aspetto interessante è la continua evoluzione delle tecnologie web e delle sue strutture comunicative: al giorno d’oggi, un portfolio si deve confrontare con la possibilità di essere visto online, e visibile su uno schermo. Diventa quindi utile studiare il progetto anche dal punto di vista delle diverse tipologie del linguaggio di Internet.
Credi ci sia una differenza netta tra la costruzione di un portoflio e quella di un libro d’artista? Si può intendere il portfolio come una tappa iniziale per arrivare alla produzione di un libro?
Sono abituato a pensare al portfolio come qualcosa di molto vicino al libro d’artista: anche nel portfolio le immagini vanno impaginate secondo un criterio di leggibilità, di comprensione e di fascino.
Quando ero giovane, e forse anche ora, esistevano regole rigide per la definizione di un “portfolio” o di un “libro d’artista”: ad esempio diverse caratteristiche della carta, delle pellicole, dei caratteri utilizzati… ma questo non è mai stato il mio problema. Ho sempre considerato il portfolio come un prodotto paritetico al libro: un portfolio può anche diventare un libro, e viceversa. Agli iscritti al workshop insegnerò a progettare portfolio che siano anche libri e libri che siano anche portfolio.
Ricordi il tuo primo portfolio?
Sinceramente? Era orribile. Era un portfolio sulle opere del Canaletto a Venezia. Avevo fotografato gli stessi luoghi che il Canaletto aveva ritratto nei suoi dipinti, e avevo incollato le mie fotografie su dei cartoncini, raccogliendole in una cartella. Dopo qualche mese si era scollato tutto. Quello fu il mio primo prodotto grafico, terrificante. Dopo sono migliorato. E questo soprattutto per una ragione: ho avuto bisogno di lavorare. Siccome non trovavo lavoro con la fotografia, cominciai a sfruttare i miei studi di grafica e ad affinare quindi le tecniche di presentazione del libro artistico come prodotto. La commistione di grafica e fotografia è stata la mia risorsa.
Già da due anni collabori come docente al master sull’immagine contemporanea di Modena. Come giudichi l’interazione col territorio modenese?
A Modena ho avuto numerose esperienze, anche molto importanti. Ai tempi di Oscar Goldoni – a fine Anni Sessanta – l’ufficio grafico comunale aveva una sala adibita alle mostre di fotografia. Dentro il Comune! Conobbi anche Luigi Ghirri in quelle occasioni. Più in generale, Modena è una città che nel corso degli anni è riuscita a seminare tanto. È una città che merita la fotografia. Merita anche l’intuizione di dedicarvi una scuola: su questo aspetto in Italia non siamo a livello europeo e non esistono molti luoghi simili. Da docente credo che in una scuola come questa sia necessario un approccio aperto ad altri linguaggi e insegnamenti, che consenta agli studenti di coltivare un eclettismo artistico permettendo loro di affrontare i diversi ambiti del mestiere di fotografo. È infatti fondamentale aprire le porte a mondi che arricchiscono lo specifico della fotografia. Sono i ragazzi a chiedercelo: cercano una formazione meno specialistica e riduttiva, più aperta e vicina alla modernità. L’ibridazione delle arti è un concetto in cui ho sempre creduto, così come al fatto che esista un collante tra i saperi: un giovane che assorbe davvero gli insegnamenti che gli vengono dati non abbandona un’esperienza artistica a discapito di un’altra, le coltiva tutte.
Enrico Stradi
http://www.fondazionefotografia.org/
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