Mandela, Enwezor e la Biennale che vedremo nel 2015
Come molti altri movimenti di liberazione del secolo scorso, quello promosso da Nelson Mandela con l’ANC - Africa National Congress ha portato con sé, oltre a sacrosante istanze politiche, una notevole carica comunicativa: basti pensare alla produzione facilmente identificabile di bandiere, t-shirt, loghi che appartengono in maniera efficace a una brand identity chiara e riconoscibile.
Essere riconoscibili per essere riconosciuti: si potrebbe sintetizzare così l’obiettivo di Nelson Mandela e del “suo” ANC – African National Congress, visto che nel Sudafrica boero di quei decenni essere neri equivaleva a non accedere pienamente allo statuto di esseri umani.
Molte sono state le mostre e gli studi che hanno indagato la particolare efficacia della grafica e in generale della “immagine” legata ai movimenti black. Basti pensare, andando negli Stati Uniti, a quanto fosse curata quella delle Black Panthers, a partire dal nome stesso del gruppo, per passare all’abbigliamento, alle posture, e naturalmente agli indimenticabili manifesti e locandine. Una forza comunicativa che forse soltanto durante i primi anni della Rivoluzione bolscevica fu eguagliata.
Tornando in Sudafrica, la medesima carica “pubblicitaria” – nel senso più elevato del termine, il rivolgersi agli altri – non si esaurì nemmeno con l’ondata più radicale di protesta, iconizzata dai riot a Soweto. Un nome che, sino ad allora, era ben poco noto, ma che dopo il 16 giugno 1976 – quando la polizia sparò su una manifestazione studentesca, uccidendo centinaia di adolescenti – diventa spunto anche visivo per sostenere la lotta. E non parliamo soltanto delle fotografie, come quella che tutti conosciamo con il piccolo Hector Pieterson morente portato a braccia da un suo compagno; bensì di un simbolo che mantiene la propria vivacità fino alla fine del millennio: basti pensare all’album – stupendo – degli Art Ensemble of Chicago insieme all’Amabutho Male Chorus, intitolato semplicemente Art Ensemble of Soweto (1990), con la parola ‘Chicago’ che sulla copertina del disco viene barrata in favore dello slum di Johannesburg.
Mandela va ricordato non solo per il suo sforzo titanico e tenace (27 anni di carcere sono una enormità), ma anche per il suo impegno continuo nel non tacere quanto sia difficile rimarginare una ferita come l’Apartheid. E lo ha fatto istituendo la coraggiosa commissione per la “verità e riconciliazione”, con un gesto di consapevolezza che è mancato in quasi tutti gli Stati “occidentali”, dove al limite ci si è attestati a livello giudiziario. Ma, come ben sappiamo, verità storica e verità giudiziaria non sempre sono concordi, e comunque hanno tempi e modalità differenti. La medesima lucidità, Mandela l’ha mantenuta negli anni ultimi della sua vita, non mancando mai di sottolineare come il Sudafrica fosse un Paese tutt’altro che perfetto, anche dopo la “vittoria”. E in questo caso basti pensare alle condizioni dei lavoratori delle miniere di diamanti, alla strage nel Kimberley del 2012. Guardare lo splendido film di Steve McQueen Western Deep (1999), anche se realizzato altrove, insegna probabilmente di più rispetto a tanti colti saggi di politologia.
Così come una mostra ben costruita, che sappia mettere insieme dati storici, opere d’arte, documentazione, creatività: penso proprio a quella sull’Apartheid che la scorsa estate era allestita al PAC di Milano. Coincidenza – se si crede alle coincidenze – vuole che fosse curata da Owkui Enwezor, ovvero l’appena nominato direttore della Biennale di Venezia 2015. E naturalmente speriamo che Enzewor riesca a costruire una mostra che, senza cedere a stereotipi, possa raccontarci qualcosa del nostro presente e magari del nostro futuro. Non di quello che fatalmente ci aspetta, ma di quello che possiamo rendere attuale. Sarebbe un bell’omaggio a un uomo come Mandela.
Marco Enrico Giacomelli
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