Nuovi paesaggi urbani (V): Bologna, stazione Alta Velocità
Un altro esempio, un altro reportage, un altro attraversamento, un altro spunto che proviene dalla nostra realtà. Torna su Inpratica la serie sui “Nuovi paesaggi urbani”, e questa volta sosta alla stazione Alta Velocità di Bologna.
I muri nudi e umidi, il silenzio,
lo squallore delle luci: tutti là dentro
parevano essersi dimenticati che in qualche
parte del mondo esistevano fiori, donne ridenti,
case allegre e ospitali. Tutto là dentro era una
rinuncia, ma per chi, per quale misterioso bene?
Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari (1940)
In principio c’era il “non-finito”: il non-finito presuppone l’interruzione del processo costruttivo, e il fatto che l’edificio si presenta come rovina, prima ancora di essere completato: “Il nostro Paese ‘cresce’ per accumulo e stratificazione di edifici e aree che nascono già come rovine (un po’ come quelle che sorgevano nei parchi inglesi del Settecento) o che diventano tali in breve tempo: palazzi che, per la qualità scadente dei materiali impiegati o per l’assoluta allergia alla manutenzione, sembrano sul punto di crollare e che diresti senza dubbio abbandonati, scoprendovi poi scuole e ospedali; cantieri immobili da anni o in moto impercettibile, facili prede della vegetazione; edifici finiti ma inutili, o illegali, o sequestrati, e quindi vuoti; scheletri di costruzioni che svettano tra i boschi o in aperta campagna. […] Quindi, più che un Paese in rovina, come spesso – e a ragione – si ripete, un Paese-rovina. Solo qui, probabilmente, si può vivere come aggirandosi tra le macerie e nei cunicoli di un’unica, immensa rovina, popolata da spaventosi uccelli notturni, da strampalati asceti” (Fabrizio Federici, Cartolina da un Paese-rovina, “Artribune”, 21 marzo 2011).
Questo nuovo non-finito che abbiamo di fronte, invece, accompagna in realtà il completamento della struttura: in effetti, esso è il completamento.
La struttura è precaria, inconclusa e, al tempo stesso, finita. La precarietà è la forma di definizione del presente. I ponteggi, le impalcature, i cavi scoperti, i tralicci, le intonacature irregolari e incompiute, le parti mancanti sono la funzione – e la fruizione – di questo presente. L’incompletezza ne è la radice. Il “ben fatto” (così tipico dell’Italia e delle cose-edifici italiani, fino a pochi decenni fa: dell’oggetto retorico “made in Italy”, sempre retoricamente brandito) è un ricordo sbiadito; la traccia, il rimasuglio, il residuo di un mondo sommerso. (Non esiste più l’artigianato? Non esiste più l’arte?)
Al suo posto, al posto del “ben fatto” e del rifinito così rassicuranti – che è come dire: al posto del gusto, che ci offre la solidità di una cultura come nostro posizionamento nel mondo – ci sono tutte queste cose lasciate a metà, che sembrano nude, scoperte, svestite, scomposte.
“Nella nuova stazione sotterranea dell’Alta velocità, inaugurata sabato in pompa magna, piove acqua: s’infiltra dai pertugi di strutture da ultimare, si accumula in pozzanghere, rende scivolosi i pavimenti […] Anche l’origine è evidente e riconosciuta: la stazione è ancora un cantiere, con opere e rifiniture da completare. C’è da sperare in un’estate asciutta, sempre che l’acqua non arrivi da altre parti, oltre che dal cielo e dall’alto. Divisori e mascherature sono in cartongesso, cui sgocciolii e umidità non giovano” (Lorenza Pleuteri, Piove sull’Alta Velocità: la nuova stazione fa acqua, “la Repubblica-Bologna”, 10 giugno 2013).
E questo aspetto, dovuto al caos, identificato con il caos (della progettazione, della contingenza: dominate dalla fretta e dalla distanza incolmabile, abissale tra come-dovrebbe-essere e come-è, tra come appare sullo schermo o nel rendering e come lo esperiamo nella vita, tra un pensiero irrisolto e un’azione debole, manchevole) è un’altra faccia, forse quella più importante e terribile, proprio perché ormai così familiare da essersi resa letteralmente irriconoscibile . del destino di un’intera epoca. La nostra.
L’economia politica si cala, e può essere calata, in questi nuovi spazi urbani dell’Italia che svelano la nostra identità profonda. La critica del presente passa da qui.
Christian Caliandro
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