Oz. Il carcere, non il mago
La natura concentrazionaria del contemporaneo, prevista e descritta dalla prima serie HBO. Ben prima de I Soprano, di Mad Men e di The Wire. Da vedere e rivedere, le 56 puntate di Oz sono ambientate in una prigione “modello”, che rammenta Bentham e Foucault.
Quando si parla della grande serialità contemporanea degli ultimi anni come radice di uno sguardo nuovo sulla realtà e sulla sua rappresentazione, generalmente quasi tutti citano – a ragione – I Soprano, Mad Men o al massimo The Wire. Il rimosso, in questo come in altri casi, risiede nella prima serie HBO in assoluto, nel vero punto di origine di un racconto diverso: Oz (Tom Fontana, HBO 1997-2003).
È in assoluto la più cruda, potente e dura delle narrazioni proposte da questa specie di età dell’oro, spesa al suo inizio. Il genere a cui si appoggia sperimentalmente – come faranno di lì a due anni i Soprano con i film di mafia scorsesiani – è quello carcerario, autorevole e pessimista come pochi altri: da Papillon (Franklin L. Schaffner 1973) a Fuga da Alcatraz (Don Siegel 1979), da Brubaker (Stuart Rosenberg 1980) a Sorvegliato speciale (John Flynn 1989).
‘Oz’, come ci racconta a ogni inizio di stagione la “voce narrante” di Augustus Hill, sta per Oswald State Correctional Facility, prigione immaginaria nello Stato di New York. Gran parte della vicenda delle sei stagioni si svolge nel nucleo sperimentale della prigione, il “Paradiso” (ma nella versione originale è più coerentemente “Em City”, la Città di Smeraldo), un luogo utopico in cui le celle sono trasparenti (i famigerati “acquari”) e in cui le minoranze etniche e i gruppi sociali (neri, ispanici, italiani, musulmani, neonazisti, altri) sono equamente ripartiti e rappresentati, sotto la direzione del funzionario liberal Tim McManus.
Il Paradiso è uno spazio correzionale che si identifica totalmente con il controllo sociale, una riedizione contemporanea in chiave riabilitativa e rieducativa del Panopticon di Bentham studiato da Michel Foucault in Sorvegliare e punire (1975). Lo spazio fisico del Paradiso è anche lo spazio dell’inquadratura e del racconto, uno spazio la cui delimitazione formale indica, riduce e rende visibili – quasi tangibili – le convenzioni, i confini di classe e di privilegio, le relazioni tra protagonisti e comprimari, tra servi e padroni, tra dominatori e dominati, tra custodi e prigionieri. In questo modo, Oz è la riduzione di un intero mondo, il modo finzionale di rendere molto concreta l’astrazione dei rapporti sociali ed economici così sfuggenti nella vita reale. Qui ogni distrazione, ogni diversione rispetto alle regole non scritte ma rigidissime, ogni scelta sbagliata e inopportuna rispetto al proprio percorso esistenziale, al proprio cursus honorum carcerario viene punito con il massimo della pena.
Rispetto a The Wire, il cui pessimismo di fondo sarà temperato da una fiducia molto americana nel riformismo e nell’azione dei singoli all’interno del sistema, Oz è ispirato a un realismo crudele, tragico e senza scampo (molto poco americano, in effetti), ma proprio per questo forse più solido e dotato di futuro: la filosofia e il metodo di Oz sono infatti caratterizzati dalla fungibilità estrema di utopia e distopia. Questo universo concentrazionario in cui ci immergiamo, spettatori, per 56 episodi (per la prima volta viene stabilita, in questo caso, la durata standard di un’ora per ogni puntata) ha la capacità straordinaria di condensare e cristallizzare, come in uno strano vetrino narrativo, i modelli e le interazioni di cui noi facciamo esperienza ogni giorno, nei nostri acquari privati e pubblici.
Così, gradualmente scopriamo che tutti noi viviamo nel nostro Oz particolare, che c’è sempre un McManus più o meno fallimentare a gestire tutti i processi che ci riguardano, che le nostre opzioni di scelta e decisione sono molto meno variegate di quanto amiamo pensare e che qualcun altro le ha predisposte per noi. Che stiamo tutti scontando la nostra personale condanna. Se il claim della serie – It’s no place like home – mutuava deformandola la frase famosa del Mago di Oz (“There’s no place like home”), noi possiamo oggi dire che l’efficacia di questo modulo narrativo consiste proprio nel potere di familiarizzarci con il perturbante. Questo avviene non solo perché man mano ci affezioniamo all’imam Kareem Said, a Tobias Beecher e alla sua prodigiosa maturazione umana, a Rian O’Reilly e a suo fratello Cyril, a Miguel Alvarez e a sorella Peter Marie, ma soprattutto perché siamo consapevoli che una serie tv ha saputo prefigurare e interpretare, con largo anticipo, il tempo splendidamente e terribilmente inabitabile che oggi ci è dato di vivere.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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