Tu chiamali se vuoi mediatori culturali
Con i nuovi musei e le nuove forme di fruizione sono aumentate anche le professioni nel settore dei beni culturali. Alcune di esse, però, sono ancora poco note e ancora meno riconosciute. Viaggio da Nord a Sud per scoprire chi sono i mediatori culturali museali e cosa c’è dietro il settore educational dei musei.
Se provate a cercare su Google ‘mediatori culturali’, il primo risultato sarà (come spesso accade) quello di Wikipedia: “Il mediatore culturale è una figura professionale che ha il compito di facilitare l’inserimento dei cittadini stranieri nel contesto sociale del Paese di accoglienza, esercitando la funzione di tramite tra i bisogni dei migranti e le risposte offerte dai servizi pubblici”. E fin qui, tutto facile. I problemi sorgono quando accanto a ‘mediatore culturale’ si aggiunge l’aggettivo ‘museale’: non esiste alcuna definizione. Ora, se qualcosa non è riconosciuto da Internet, di regola non è conosciuto da nessuno o al massimo lo è da una ristretta cerchia. È il caso del mediatore culturale museale. Figura professionale pressoché sconosciuta ai più, che siano singoli, enti o istituzioni; eppure dietro queste semplici parole c’è un fermento di giovani, un esercito di laureati, una miriade di curriculum vitae che aspettano ancora una risposta e, più di tutto, un riconoscimento legale. E sì, perché per ora di mediatore culturale riconosciuto ne esiste solo uno: quello linguistico, colui che media tra diverse culture.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando e per conoscere più approfonditamente questa figura professionale, abbiamo interpellato diversi esperti del settore: ne è uscita una radiografia del sistema museale italiano e una mappa di quelli che sono i mediatori culturali in Italia. Andiamo con ordine. Il museo è un luogo che per definizione genera e comunica cultura. In che modo? Cataloghi, supporti multimediali e audioguide non possono certo assurgere a questo ruolo, non totalmente. Ci sarebbe bisogno di personale adeguato, presente nel museo, che sia in grado di dialogare con il pubblico (badate bene: dialogare).
Adesso starete pensando: ma esiste già, sono le visite guidate. Non proprio, e Angela Bianco, assegnista in Storia dell’Arte all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ci spiega il perché: “La visita guidata prevede che uno parli e gli altri ascoltino, la mediazione culturale museale, invece, vuole favorire il dialogo, l’approfondimento; il mediatore culturale, spesso, è quello che ascolta invece che parlare. Ha il compito di far sorgere curiosità nel visitatore, deve proporgli nuovi spunti di riflessione, e, fondamentale, deve invogliarlo – sì, anche spronarlo – a mettersi a confronto con l’arte. Senza dimenticare una differenza fondamentale: la mediazione culturale è un servizio gratuito e non abbisogna di prenotazione, la visita guidata sì”.
La nostra prima sosta, in questo viaggio da Nord a Sud sulle tracce del mediatore culturale museale, è proprio Venezia. Qui il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali forma sul campo mediatori culturali dal 2009 e l’esordio fu la mostra Nigra Sum Sed Formosa. Ancora Angela Bianco: “Ogni anno lanciamo un bando nazionale, aperto a tutti gli studenti di qualsiasi ateneo italiano, per progetti di mediazione culturale. L’ultimo si è chiuso e metà settembre scorso e su 27 borse di studio offerte abbiamo ricevuto 59 domande, addirittura da studenti di Napoli, Roma e Bologna. Questo bando prevede la presenza dei mediatori all’interno di Punta della Dogana”. Insomma: Venezia è il primo ateneo italiano a formare sul campo, non in aula, mediatori culturali museali; lo fa dal 2009, e riconoscendo anche un rimborso spese di 500 euro circa, denaro messo a disposizione dall’ente che richiede i mediatori. Il risultato? Sinergie tra università e musei del territorio, formazione attiva per gli studenti, nuove reti di conoscenze e saperi. Certo, Venezia ha la fortuna di avere molti musei, e Ca’ Foscari quella di avere sedi espositive proprie dove “far fare palestra ai neomediatori”. “Dal 2009”, prosegue Bianco, carte in mano, “sono passati oltre 350 mediatori e sono stati coinvolti più di 10 tra musei e fondazioni”.
La nebbia che avvolge questa figura professionale va diradandosi. Faro in questa penombra è la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino che, con Giorgina Bertolino, responsabile del settore mediazione culturale, ci aiuta a sciogliere la matassa: “Il mediatore culturale museale nasce in Francia a metà degli Anni Settanta, per poi diffondersi in tutta Europa. Noi, come fondazione, siamo stati i primi a importare in Italia questa figura professionale, quand’era ancora sconosciuta”. Con Giorgina Bertolino affrontiamo anche il tema del riconoscimento di tale professione. Infatti, sia l’ICOM – International Council Of Museums con la Carta delle Professioni Museali, sia il Decreto Ministeriale del 10 maggio 2001 chiamato Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei, non dicono nulla su questa figura; un lieve accenno si fa nella carta dell’Icom alla figura dell’educatore museale (“Realizza gli interventi educativi programmati dal museo adeguandoli alle caratteristiche e alle esigenze dei diversi destinatari”). Nella teoria si avvicina, ma nella pratica? “Come sempre, le nuove figure professionali”, dice Giorgina Bertolino, “fanno sempre fatica a farsi riconoscere all’interno del sistema Italia, non solo in quello culturale. Certo, musei e amministrazioni si stanno muovendo a favore di questo riconoscimento, ormai sono sempre più i musei in Italia che richiedono la figura del mediatore culturale”. La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ci tiene molto ai suoi mediatori culturali: sono quatto, tutti giovani laureati in arte e che parlano almeno due lingue. In Piemonte ci sono altre realtà che hanno iniziato a utilizzare i mediatori culturali, ad esempio il Castello di Rivoli. E il trend è in crescita anche in altre zone d’Italia.
Tornando alla questione riconoscimento: non essendoci una linea guida precisa, la figura del mediatore culturale (diversamente da altre figure saldamente affermate: si pensi al direttore, al curatore o al restauratore) non conosce obblighi legislativi nel senso di requisiti per l’incarico, né esiste un preciso iter formativo. La domanda è: come preparare un mediatore culturale prima del suo ingresso nel mondo del lavoro? L’autoformazione non basta. Per scoprirlo lasciamo il Piemonte per dirigerci in Lazio, verso la Capitale: all’Università Roma Tre è attivo il master di secondo livello in Mediazione culturali nei Musei, diretto da Emma Nardi. Ci stupisce vedere che il master non è collegato al Dipartimento di Lettere e Filosofia, ma a quello di Scienze della Formazione. Perché? “La mediazione culturale museale serve, prima di tutto, per capire le esigenze del pubblico: da noi si affronta di più la pedagogia che la storia dell’arte”, spiega la professoressa. “Infatti qui gli iscritti sono per lo più docenti e personale della pubblica amministrazione. Gli studenti ricoprono una minima percentuale”. Il master di Roma Tre, insomma, punta “a studiare le caratteristiche dei vari tipi di utenti, in base a variabili sociali, culturali e anagrafiche, così da studiare nuovi metodi di approccio anche nel settore dei beni culturali”. Tradotto: i mediatori qui sono preparati anche nell’eventualità di doversi confrontare con portatori di handicap psichici e fisici, giovani disagiati e immigrati.
Spunto di riflessione: il presupposto fondamentale della mediazione culturale nei musei non è l’opera d’arte, ma l’utente; questo significa che è vero che i mezzi di fruizione dell’arte cambiano, ma è ancor più vero che chi entra in un museo deve mettersi a confronto, giocare e superare i propri limiti e paure. È per questo che un mediatore culturale deve sì avere un background artistico, ma anche una preparazione pedagogica, per non dire teatrale. Deve riuscire a entrare in contatto col visitatore, catturare la sua attenzione e spingerlo a ragionare su ciò che lo sta circondando. È per questo motivo che l’arte contemporanea si sposa perfettamente con l’idea di mediazione. Secondo Giorgina Bertolino, “l’arte contemporanea è ancora da scoprire, si possono intraprendere nuovi studi, nuove strade di conoscenza, invoglia a porsi domande; diversamente dall’arte antica, che è già accettata e ampiamente studiata”.
Usciamo dalle aule universitarie per respirare l’aria del museo. A Roma sono due i luoghi in cui potete trovare mediatori culturali: al Macro (col progetto I Love Macro) e al Maxxi. Con Roma il cerchio, anzi il triangolo, si chiude: Venezia-Torino-Roma. Adesso, però, c’è da capire come mai il mediatore culturale è così poco richiesto. I motivi sono per lo più due, uno economico, l’altro pratico-legislativo. Quello economico: non tutti i musei, per questione di fondi, possono permettersi figure specializzate e quindi si preferisce lasciare il visitatore in balia delle targhette sotto le opere. Quello pratico: chi i soldi li ha, deve fare i conti con le cooperative culturali. Apriti cielo.
Prima di proseguire serve un cenno storico: negli Anni Novanta – con l’emanazione del D.L. n. 433 del 1992 e la successiva legge di conversione del 1993 n. 4 nota come Legge Ronchey – il museo poteva offrire più servizi, anche delegando a terzi. Qui però nacque un equivoco: con il D.M. del 24 marzo 1997 n. 139, le attività educative furono assimilate ai “servizi accessori”. Ecco. Ovviamente i mediatori culturali rientrano per diritto nelle attività educative, che per legge sono appaltate a terzi, cioè alle cooperative culturali. Sono loro, in concreto, che dovrebbero fornire la maggior parte dei servizi del reparto educational dei musei, anche i mediatori.
La più importante cooperativa operante nel settore dei beni culturali è la CoopCulture: solo a Roma gestisce 16 musei (di cui 11 della Soprintendenza dei Beni Archeologici). Li abbiamo contattati per fare luce sulla questione: “La CoopCulture forma e fornisce mediatori culturali, li prepariamo in base alle necessità del museo ospitate. I nostri servizi sono per lo più a pagamento e prevedono la prenotazione”. In questo caso mediazione culturale e visita guidata fanno rima. La questione, però, è spinosa: da un lato c’è il museo che deve sborsare soldi per ricevere un servizio, il quale è poi ovvio che debba rivenderlo al pubblico (che, ovviamente, non è obbligato a sceglierlo); differentemente può – e in questo caso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è virtuosa – assorbire il comparto educazione, ammortizzare i costi e fornire un servizio gratuito. Dall’altro ci sono le cooperative che, nonostante tutto, se la vivono bene, poiché uniche a poter fornire determinati servizi. Per capirci: finché sarà così, la diffusione del mediatore culturale avverrà col contagocce, almeno fino a quando il reparto educazione non verrà più considerato “accessorio” e soggetto a forniture terze. La matassa è dura da sbrogliare.
Concludiamo con chi questo lavoro lo fa da tempo, proprio un mediatore. Flaminia ha 22 anni, studia chimica per il restauro e vive a Venezia; in passato è stata mediatrice culturale tramite l’Università Ca’ Foscari: “Mediare non è un gioco da ragazzi, bisogna conoscere molto bene ciò che si vuole mediare – un quadro, una scultura, un’installazione – e chi, questo per poter offrire un servizio che vada oltre le parole, oltre la visita guidata. È necessario, oggi ancor di più, porsi domande, essere critici con ciò che ci circonda”. A Venezia i mediatori hanno una t-shirt di riconoscimento con alcune parole chiave stampate a lettere cubitali: camminare, ascoltare, dialogare, conoscere, osservare. Verbi che se vanno da soli non valgono niente, ma insieme formano l’anima della mediazione culturale.
Un’ultima postilla: tra le neoprofessioni museali c’è anche il registar. In Italia è praticamente sconosciuto e non c’è luogo che possa formarlo secondo le direttive Icom. Ma questa è un’altra storia.
Paolo Marella
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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