Una nazione di camerieri
Stando all’intuizione di Indro Montanelli, ha origini lontane la predisposizione tutta italiana al servilismo. E ora tutto assomiglia ancor di più agli Anni Cinquanta, con una retorica che mette insieme messianismo (il ritornello della crisi che finirà) e accettazione supina (il non essere “choosie”). Intanto pare di essere piombati nella Hill Valley di Ritorno al futuro 2.
“Il gendarme spagnolo e il tribunale dell’Inquisizione non trovavano in Italia l’ostacolo che avevano incontrato in Olanda: una coscienza individuale resa consapevole dalla Riforma dei propri diritti e doveri e quindi decisa a tutto pur di salvare la sua autonomia dal sopruso autoritario. La trionfante Controriforma aveva tolto agli italiani questa difesa, e li rendeva disponibili a tutto. È da questo momento infatti che si sviluppa nel nostro popolo la propensione ai mestieri ‘servili’, in cui tutt’ora gli italiani eccellono. Essi sono i migliori camerieri del mondo, i migliori maggiordomi, i migliori portieri d’albergo, i migliori lustrascarpe, perché cominciarono a esserlo fin d’allora, quattro secoli fa”.
Questo scenario, descritto da Indro Montanelli nel 1959, diventa ogni mese più credibile e realistico: i nostri politici, anzi, sembrano proprio augurarselo. L’Italia – insieme all’intera Europa meridionale, non a caso quella più in difficoltà dal punto di vista economico nell’era della crisi e all’interno del progetto comunitario, in apparente via di dissolvimento – trasformata in vacation land. Un unico grande parco di divertimenti, una nazione orientata unicamente all’intrattenimento dei turisti stranieri. E certamente non è difficile immaginare un’intera classe dirigente, nata tra Anni Cinquanta e Sessanta e patologicamente affezionata a schemi mentali obsoleti e griglie interpretative antiquate, impegnata a sognare i giovani di adesso – che tra non molto, è bene non dimenticarlo, saranno “non-più-giovani” – finalmente e felicemente occupati come camerieri, cuochi, sguatteri, domestici, cicisbei. Badanti.
Grati di aver ricevuto un impiego sottopagato, e grati soprattutto di aver rinunciato a tutto ciò che avrebbero potuto realizzare in un Paese diverso, più civile e moderno; grati dei meravigliosi progetti in rovina e delle occasioni perdute, grati di una vita sprecata nella frustrazione, nel costante rinvio e nell’autocommiserazione (perché questo è il senso ultimo della precarietà che ci avvolge tutti come una membrana impermeabile). Grati di tutto questo, del loro fallimento che incombe, a una generazione fallimentare in tutto tranne che nella spietata opera di autoconservazione.
E così, il progetto di “superare la crisi” (ma già questa è una gigantesca distorsione prospettica: non c’è nessuna crisi da superare, così come non esiste nessun tunnel da attraversare, perché la crisi stessa consiste nel superamento di una condizione della realtà che non può essere più ripristinata per la semplice ragione che non esiste più se non nelle sue infinite proiezioni nostalgiche…), magari attraverso l’investimento nel gioco d’azzardo e/o nel modello squisitamente nostrano della “città d’arte”, è non solo velleitario, ma anche inutile e dannoso.
Ci troviamo – non improvvisamente – catapultati in una condizione distopica, non dissimile dal 1985 sbagliato in cui piomba Marty McFly in Ritorno al futuro – Parte II (Robert Zemeckis 1988), con Biff Tannen, a cui il se stesso anziano ha consegnato il mitologico Almanacco dello Sport, che spadroneggia come un despota assoluto su uomini e beni. Biff ha trasformato una cittadina più o meno ridente come Hill Valley in un incubo a cielo aperto, modellato a propria immagine e somiglianza. Marty – a partire da una scena esattamente speculare a quella del suo ingresso nella piazza principale del 1955 – affronta un paesaggio urbano e sociale fatto di degrado pauroso, sopraffazione e squilibrio. Il tessuto umano ed economico della comunità è andato a farsi benedire, a favore di un’economia predatoria; non c’è più alcuno spazio, né posto, per i cittadini (tranne quei pochi che vivono assediati e terrorizzati nelle loro case): il concetto stesso di comunità e di cittadinanza è completamente evaporato.
A questo serve la cultura? Davvero la cultura è solo innocua distrazione, entertainment confinato al tempo libero e riservato esclusivamente a chi se lo può permettere? No. Perché la cultura è orientata alla trasformazione radicale della nostra vita. La sua funzione è in fondo la stessa che Harlan Ellison attribuiva alla letteratura: “Non so come voi giudichiate la mia missione di scrittore, ma per me non ha nulla a che fare con la responsabilità di rinsaldare i vostri miti concretizzati e i vostri pregiudizi provinciali. […] Questa mia magnifica e terribile occupazione di ricreare il mondo in un modo diverso, ogni volta strano e inusitato, è un atto di guerriglia rivoluzionaria. Io agito le acque. Vi metto a disagio. Vi faccio colare il naso e vi inumidisco gli occhi”.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #15
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