Aste italiane. All’estero
A farsi un giro tra le preview delle Italian Sale a Londra viene prima invidia poi rabbia. Perché in Italia non si riesce a farlo? Le case d'asta sono costrette a creare altrove un mercato di arte italiana. Ci sono preview nelle nostre città ma si vende altrove.
L’Italia è considerata un source market, un Paese da cui poter solo prendere. Non ci sono compratori, collezionisti, ed è difficile vendere. Il motivo principale è l’atteggiamento politico e amministrativo solo conservativo del Mibact. Innanzitutto il personale ha una formazione tecnica e storica: manca quella economica, è marginale quella giuridica. Significa che le sensibilità vanno sugli aspetti di recupero e conservazione.
Politicamente il Mibact è stato pensato (e ha perpetuato, a dispetto di ogni riforma) per una sola funzione diretta pubblica e non tiene in considerazione l’offerta cultuale privata. Le attività ministeriali concepiscono solo il privato beneficiario di contributi pubblici che si sostituisce a esso nei servizi. Non a caso la nuova produzione culturale è nelle politiche pubbliche ai minimi termini. Le azioni a sostegno di artisti e organismi produttivi sono infinitesime in termini di numero e di valore. Troppo poco ha aggiunto la legge Bray, solo per cinema e musica. Il mercato dell’arte fugge dall’Italia. Colpa di una normativa egoista, che concepisce la tutela come protezione verso tutto e tutti.
Vendere non è facile perché non è facile essere autorizzati dal Mibact. Il valore medio dei beni venduti all’asta è passato dai 25mila euro del 2009 ai 6mila di oggi. Allora i mercanti quello che posso movimentare lo portano fuori, in piazze vivaci. Il fenomeno contrattivo del mercato, la mancata attenzione ha un’altra conseguenza: sta sparendo il collezionista, da un punto di vista culturale. Fino a metà del Novecento le grandi famiglie italiane compravano, collezionavano, magari creavano anche una fondazione per esporre al pubblico, per condividere (o anche per essere celebrati: lo ha insegnato Lorenzo de’ Medici, l’ultimo sembra essere stato Gianni Agnelli). Oggi ci sono altri miti, altre forme di riconoscimento e posizionamento sociale.
La notizia “buona” è che il ministero ha istituito una commissione per revisionare il Codice del 2004, speriamo per toccare quei gangli che deprimono il mercato e quindi l’occupazione, la professione, l’imprenditorialità.
Fabio Severino
project manager dell’osservatorio sulla cultura – università la sapienza e swg
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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