Cosa può fare l’arte per la crescita?
Sempre lì si torna: con un’IVA al 22%, come si fa a incentivare un settore - quello dell’arte contemporanea e in generale della cultura - che in Italia occupa una fetta occupazionale ben inferiore al resto dell’Europa? E dire che l’editoria gode di una aliquota del 4%, con una differenza di ben 18 punti percentuali…
L’azione pubblica a sostegno dell’arte
Appena qualche anno fa si parlava di “Stato culturale”; più recentemente circola la definizione “cultura bene comune”, come se le parole potessero diventare vere soltanto pronunciandole. I tempi sono corruschi, gli esiti della crisi imprevedibili, ma possiamo star certi che niente sarà più come prima: che l’azione pubblica possa ancora essere ecumenica, orientata al mantenimento dello status quo, preoccupata dal bisogno di sopravvivenza del sistema culturale, e soprattutto basata esclusivamente su sussidi finanziari appare soltanto nostalgia per un ordine delle cose sul viale del tramonto.
In un paradigma economico e sociale che si trasforma radicalmente, il ruolo del settore pubblico passa con decisione dal mecenatismo acritico alla regia strategica, con l’obiettivo ultimo di indirizzare le risorse culturali verso la crescita dell’economia e della qualità della vita, innervandosi nei processi creativi, produttivi, di relazione e di scambio dell’intero sistema territoriale. Tanto l’approccio quanto i meccanismi e gli strumenti dell’azione pubblica devono dunque mutare direzione e articolarsi costruendo un palinsesto fertile ed efficace per l’espansione e il consolidamento dei mercati dell’arte e della cultura.
La cultura nei suoi molteplici profili (pubblico, privato e non profit) rappresenta il sistema più fertile ai fini di una crescita fondata sulla progettualità, sull’investimento e sul capitale umano. L’azione pubblica, in questo quadro strategico, deve fondarsi sulla regolamentazione, sulla politica fiscale e tributaria, sull’incentivazione della responsabilità imprenditoriale. Uno dei primi passi strategici da compiere è una vera e sistematica defiscalizzazione della cultura in tutti gli anelli della catena del valore (creazione, produzione, scambio, diffusione).
Quanto vale l’arte?
L’arte è certamente un bene destinato al consumo condiviso e pertanto alla moltiplicazione progressiva del valore: attiva una reazione molteplice che connette i profili estetici con quelli storici e formativi, ma riguarda anche aspetti tecnici, tecnologici, relazionali e critici, per approdare alla qualità della vita urbana. In questo senso l’arte è uno specchio eloquente della sensibilità culturale e della responsabilità sociale. Non è sicuramente evanescente, ma sarebbe altrettanto dissennato considerarla un bene ordinario come un oggetto manifatturiero qualsiasi, utile forse ma privo di significato, soprattutto gravato da un’imposta sul valore aggiunto con aliquota ordinaria al 22%.
Si tratta di un insieme piuttosto ampio e certamente rilevante. Il Rapporto Eurostat 2009 stima la dimensione delle cultural activities e cultural occupations in oltre 3,6 milioni di addetti, ossia l’1,7% dell’occupazione totale. Più che la dimensione conta la qualità di queste professioni, cioè la loro capacità di innervare i processi economici con visioni strategiche, orientamenti innovativi, inclinazione alle sinergie, tutti ingredienti senza i quali uno sviluppo concreto e sostenibile dell’economia non è prospettabile.
Il caso italiano, non sorprendentemente, mostra alcuni punti di fragilità che collocano il Paese in coda agli Stati dell’UE27. La vulgata include convenzionalmente nel settore culturale il patrimonio artistico, architettonico e archeologico del passato, mostra una certa riluttanza a considerare culturali gli spettacoli e resiste in modo variegato ma spesso acceso all’idea che l’arte contemporanea possa godere di piena cittadinanza nel sistema culturale. L’effetto di questa sorta di ossessione conservativa si vede nelle dimensioni contenute – e certamente inferiori al potenziale – dell’occupazione culturale, appena l’1,1% della forza lavoro attiva, contro il 2,3% dei Paesi nordici e il 2% di Germania e Gran Bretagna. Peggio di noi solo Slovacchia, Portogallo e Romania. Tra i paradossi dolorosi che ne scaturiscono c’è l’inefficacia dell’investimento in capitale umano: l’Italia vanta la più elevata percentuale di studenti delle discipline umanistiche, ma soffre al tempo stesso il mercato del lavoro più rigido e bizantino; il brain drain si manifesta tanto sul territorio quanto tra i settori produttivi.
Ostacoli tributari: un’IVA troppo alta
Nella complessa e talvolta contraddittoria disciplina tributaria italiana c’è un dato cui è utile far riferimento. L’imposta sul valore aggiunto prevede tre possibili aliquote: quella ordinaria del 22% e due aliquote relative a specifiche categorie di beni e servizi, pari al 10% e al 4%. L’editoria in tutte le sue fasi (industria editoriale, stampa quotidiana e periodica, composizione, duplicazione, legatoria ecc.) si avvale dell’aliquota minima (4%) con lo scopo di agevolarne le dinamiche economiche, di facilitarne la diffusione, di incentivarne il consumo grazie al contenimento dei prezzi finali. La solidità dell’industria ne garantisce la stabilità dell’occupazione e ne apre ulteriori canali d’accesso.
Ora, il sistema dell’arte contemporanea mostra in Italia alcuni elementi di fragilità dovuti a forti vincoli istituzionali e fiscali e alla pervasività della crisi che si concretano in un valore medio degli scambi inferiore a quanto registrato in altri Paesi. Tuttavia i collezionisti italiani occupano la quarta posizione mondiale – dopo Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina – per la spesa destinata al contemporaneo. Si tratta di uno snodo che potrebbe rivelare notevoli ricadute strategiche, rafforzando e consolidando il collezionismo pubblico e privato (tanto individuale quanto societario) e rendendo l’Italia un credibile hub di scambio internazionale per l’arte contemporanea. In questo quadro la riduzione dell’imposta sul valore aggiunto è un passo ineludibile.
Gli esiti di una misura che riduca in misura rilevante l’IVA sugli scambi d’arte vanno valutati tenendo conto che, a fronte di una riduzione fisiologica del gettito rebus sic stantibus, si registrerebbe in tempi ragionevolmente brevi un aumento del gettito stesso a causa dell’emersione di transazioni tuttora occulte e illegali, dell’espansione degli scambi incoraggiata da un’aliquota inferiore del 18% rispetto a quella attuale, dell’attrazione di nuovi collezionisti attualmente posizionati sui mercati esteri. Se ne gioverebbe l’intero mercato dell’arte contemporanea, con una crescita progressiva di imprese, organizzazioni e professioni direttamente e indirettamente connesse.
Un ulteriore punto fragile di grande rilevanza risiede nella differenza tra i regimi IVA in Paesi diversi. In particolare, i collezionisti, imprese o istituzioni che acquistano un’opera d’arte in un Paese con l’imposta sul valore aggiunto ad aliquota bassa sono costretti, una volta sulla frontiera d’ingresso in Italia, a versare al fisco la differenza. Finché l’aliquota italiana rimane sul 22% è palese che ogni potenziale acquirente di un’opera d’arte è fortemente disincentivato rispetto alla sua importazione in Italia, il che priva il Paese di opere naturaliter destinate all’esposizione e alla condivisione, e pertanto ne drena le opzioni di partecipazione culturale con i variegati e intensi riflessi che ne potrebbero scaturire.
Non si trascuri, infine, il vantaggio sistemico che potrebbe derivare da una riduzione dell’imposta sul valore aggiunto sull’arte contemporanea: il rafforzamento del sistema genererebbe una cascata di effetti che si propagherebbero sull’intero tessuto sociale e urbano, cominciando a segnalare l’arte contemporanea come uno dei driver di fondo dello stile di vita italiano, con ripercussioni positive su una varietà di comparti produttivi (si pensi, ad esempio, al turismo internazionale, alla ricerca e alla formazione, ai distretti dell’artigianato di qualità) e sulle risorse umane che ne declinano le dinamiche e la crescita.
Stefano Monti e Michele Trimarchi
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