Design dietro le sbarre
Le carceri, e soprattutto i carcerati, in Italia sono in una situazione drammatica, dovuta principalmente al sovraffollamento. A rendere lo scenario un poco più vivibile ci pensano, fra gli altri, le cooperative sociali che da anni lottano per restituire dignità ai condannati con l’autoproduzione di oggetti di design.
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C’è la situazione, ormai insostenibile, di sovraffollamento delle carceri italiane: “Dopo Serbia e Grecia, l’Italia è il Paese del Consiglio d’Europa con il peggiore indice di sovraffollamento: 147 umani dove ce ne dovrebbero stare 100”, ha scritto Carlo Verdelli il 15 ottobre su La Repubblica. E c’è la realtà delle cooperative sociali che, attraverso terapie occupazionali, si battono per restituire salute, diritti e dignità al condannato.
Non si tratta soltanto di mantenere fede all’art. 27 della Costituzione, il quale recita che “le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”, e di “recuperare” un individuo per il futuro, ma anche di restituire dignità alla persona durante il periodo trascorso in galera. E tra le numerose attività lavorative che da anni vengono svolte in carcere, spesso purtroppo in sordina, ci sono i laboratori di autoproduzione di oggetti di design.
Ha cominciato Alessandro Guerriero, che nell’aprile del 1997 ha fondato, con il detenuto Saverio Pisani e padre Vincenzo Musitelli, la Cooperativa del Granserraglio presso il carcere di San Vittore a Milano. Nata come corso di formazione professionale, si è poi ampliata in una struttura lavorativa esterna che potesse accogliere le persone in semilibertà. Oltre all’evidente ruolo di struttura di reinserimento sociale, la cooperativa ha prodotto e realizzato negli anni manufatti di straordinaria originalità, grazie alla guida d’eccezione di Guerriero e all’impegno dei condannati.
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Laboratorio Artwo-Arte Utile, reparto G8 Rebibbia – photo Massimo Dinonno
L’esperienza di Milano non è fortunatamente un caso isolato. Nel 2005 Luca Modugno ha fondato a Roma Artwo, associazione culturale che si occupa di produrre in serie limitata oggetti di “arte utile” realizzati esclusivamente con materiali di recupero e scarto, ideati da artisti e designer. Gli ingredienti del progetto – sostenibilità e autoproduzione – non potevano che convergere verso una produzione sociale, realizzata all’interno di un istituto di detenzione. La Casa Circondariale di Rebibbia ha così accolto Artwo Lab, un laboratorio in cui i detenuti riproducono gli oggetti della collezione Artwo. Come spiega lo stesso Modugno, “Artwo vuole creare un circolo virtuoso che parta dal carcere e arrivi fuori, per accogliere quelle persone che hanno voluto imparare un mestiere da detenuti, e che possono continuare a farlo da donne e uomini liberi”.
Uno degli episodi più recenti è il progetto Bollate Lab, avviato dall’Associazione Liveinslums Onlus e dal designer Francesco Faccin. Il laboratorio del carcere di Bollate – probabilmente il più evoluto in Italia – è stato attrezzato come una falegnameria e ha realizzato come prima produzione gli arredi di un ristorante milanese. Tavoli, sedie, armadiature e porte disegnati da Faccin e concretizzati dai detenuti con l’aiuto del maestro ebanista Giuseppe Filippini sono subito diventati i pezzi forti del locale 28 Posti. Il ristorante in zona Ticinese è diventato nello stesso tempo vetrina del progetto e ha dato inizio a una vendita diretta, legata all’attività svolta in carcere.
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Laboratorio Artwo-Arte Utile, reparto G8 Rebibbia – photo Massimo Dinonno
Per i reclusi, i laboratori non sono una semplice attività lavorativa, ma un tempo dedicato alla creatività. I detenuti – fuori dagli angusti spazi delle loro celle – possono imparare un mestiere o mettere in pratica quello che già sapevano fare prima della condanna. Realizzare un oggetto che verrà poi venduto all’esterno equivale a inviare un messaggio e a instaurare un dialogo con chi è fuori: in poche parole, comunicare attraverso gli oggetti. In alcuni casi, certo, i detenuti replicano progetti ideati dai designer, ma in altri – come nel caso di Granserraglio – sono loro stessi a disegnare e aggiungere all’oggetto un significato. D’altro canto, la pratica della costruzione di strumenti con materiali di scarto non è una novità per chi è detenuto. Una usanza documentata dalla fotografa francese Catherine Réchard, che nel suo libro Systeme P raccoglie tutti gli oggetti realizzati negli istituti di pena d’oltralpe.
La progettazione in carcere è, in sintesi, un bisogno primario, per inventare e costruire quello che non c’è. Queste cooperative sociali non fanno altro che sopperire a questa urgenza realizzando autoproduzioni di ottima qualità.
Valia Barriello
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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