La filiera del talento
Si vende sempre meno al dettaglio e sempre più online. E la moda schizza al secondo posto, dopo il turismo, fra i settori che più impiegano l’e-commerce. Ma cosa ne è del talento in questo panorama? A fronte della mass customization, ci salveranno gli outsider.
La moda è un’espressione artistica che si confronta con la produzione industriale nel caso del prêt-à-porter o demi couture, e con quella dell’artigianato nel caso dell’haute couture. In quanto espressione artistica, dovrebbe basarsi prima di tutto sul talento, che in questo campo non sempre è garanzia di successo. Culturalmente siamo abituati ad aumentare il valore del talento in relazione all’età: l’enfant prodige fa più effetto dell’esperienza, soprattutto in campo artistico, ma ora anche economico. In questo periodo di Terza rivoluzione industriale, la Rete e lo scambio di relazioni virtuali hanno reso sempre più forti le capacità di agire con anarchia: esistono Ceo neanche maggiorenni che si esibiscono in megaconferenze come piccoli pianisti dotati, si cerca sempre di più l’aiuto di chi non ha struttura accademica per rompere un sistema in crisi. Nella moda questo fenomeno è sempre esistito, anche grazie al fatto che la didattica si sta regolamentando da una ventina d’anni: la laurea in moda esiste da poco, prima i fashion designer erano dotati disegnatori, frequentatori di sartorie capaci di progettare e realizzare l’abito, un mix di esperienza e talento.
I talenti erano diversi, come lo sono ora: talenti di comunicazione, capaci di creare un mood indispensabile, inventori di mondi da favola dove tutti vogliono entrare a prescindere dal reale valore del prodotto; e talenti creativi, geni che costruiscono abiti o accessori come perfette macchine di eleganza. Christian Dior era un grande comunicatore, Cristóbal Balenciaga un grande architetto.
Ora chi sono e cosa fanno i talenti della moda e quindi di moda? C’è un caos dove si mischiano ventenni e quarantenni; il famelico mondo della comunicazione ha determinato un sistema di stelle che vagano nel cielo patinato: tante sono le meteore, pochi i pianeti. Come negli Anni Ottanta, la comunicazione ha avuto la meglio, con la differenza che, se in quel momento chi scriveva di moda era giornalista competente, ora, grazie alla libertà della Rete, esistono blog e magazine online fatti anche da incompetenti che, spinti dalla necessità di parlare ogni giorno e ogni minuto, vanno a caccia di prede e carne fresca da pubblicare continuamente. I talenti riempiono blog e fiere in una competizione in cui si rischia di perdere le tracce di chi è bravo sul serio. La caccia ha ampliato enormemente il proprio territorio e la stampa mischia studenti a professionisti, con il risultato di mostrare produzioni di fine anno accademico insieme al lavoro di designer che esistono sul mercato da tempo. Ecco la filiera del talento che, per esigenze di comunicazione, è portata ad autoalimentarsi.
Ma il talento, quello vero, è cosa rara, e chi ne capisce lo sa riconoscere anche in questo caos. Alla fine, a emergere è spesso l’outsider: colui che è totalmente fuori dalle regole perché capace di unire il materiale all’immateriale, e che crea capolavori come faceva un Alexander McQueen.
Bisogna dunque fare i conti con un panorama che sta cambiando. E se è vero che i social network tendono a privilegiare immagini e storie a effetto, la moda ora chiede altro. Il fenomeno dell’e-commerce condiziona la produzione: dopo il turismo, l’abbigliamento è la seconda voce di vendita online, ma la frenesia del nuovo, dell’acquisto spasmodico, sta lasciando il posto alla voglia di possedere abiti e accessori che raccontino una storia, e le storie non le sanno raccontare tutti. Convivono una mass customization, per cui possiamo personalizzare l’acquisto online scegliendo colori o finiture, nell’illusione che sia solo per noi; e una ricercata scelta di un lusso colto, per cui è meglio un bel pezzo vintage ma che sia vero, meglio la tradizione del mercatino più che il web su misura. Il talento, rieccolo, del fashion designer si confronta dunque con dati che parlano di calo del 10% per la vendita al dettaglio e di crescita del 19% dell’e-commerce nel 2012.
Un mondo molto più complesso rispetto a qualche anno fa: l’abito non si vede alla sfilata, ma nel fashion-film, ed è tutta un’altra storia. In Europa, insieme ai fast fashionisti, si sta consolidando una sorta di Nouvelle Vague della moda d’autore fatta di veri talenti che operano per mostrare un altro mondo, un’alternativa all’incolto stress quotidiano. Intimisti, rigorosi nella loro missione, colti, a loro modo aristocratici, dandy perché viaggiatori. Non fanno parte del sistema, sono poco presenzialisti, e più nel panorama dell’arte che in quello della moda.
Nelle ultime presentazioni internazionali della stagione primavera/estate 2014 sono emersi due casi addirittura “mistici”: gli Aganovich e Ludovica Amati. Aganovich, unione di una designer serba e uno inglese (Nana Aganovich e Brooke Taylor), hanno presentato Heretics, un raffinatissimo progetto pieno di contenuti evocativi dell’eleganza che viene dal rigore. Ludovica Amati ha proposto Matronita in una sfilata-performance, una collezione realizzata in collaborazione con un rabbino, piena di testo che viene elaborato per diventare segno sull’abito. Due brand narrativi, sicuramente aristocratici e poco gestibili da chi “usa” il talento, e relativa filiera, come riempitivo. Come dire: la moda d’autore esiste e non ha età. Esistono bei contenuti e belle collezioni, quindi definirsi paladini dei giovani proponendo concorsi o fiere o comunicazione mirata è un lavoro di ricerca profonda. Ma, per fortuna, esisteranno sempre gli outsider.
Clara Tosi Pamphili
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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