Baldanza su tela. Intervista con Alessandro Del Pero
Alessandro Del Pero, pittore professionista da appena cinque anni. Eppure già conta due solo show a Chelsea, oltre che varie rappresentazioni in Italia, Spagna e Germania. Siamo andati a conoscerlo nel suo appartamento/studio di Harlem.
Alessandro Del Pero, hai un passato come architetto, quindi cinque anni fa è arrivata la tua svolta professionale e hai deciso di dedicarti alla pittura. Com’è nata questa decisione?
Pittura e architettura sono due mondi paralleli e comunque molto distanti. La creatività nell’architettura sta nella ricerca della risoluzione di un problema, che è anche un argomento molto affascinante. Solo che a me questo non bastava più. Così ho scelto una professione che si basasse sulla creatività e sul talento. Nient’altro.
Talvolta ti prende la voglia di fare un passo indietro, o per lo meno di prendere una pausa dalla pittura per l’architettura?
Non succede mai che un artista puro abbia l’ambizione di essere considerato un architetto. Casomai accade il contrario. Soprattutto certe grandi firme dell’architettura ci tengono a essere chiamati artisti. Se ho un rimpianto a proposito dell’architettura è quello di non aver smesso prima. Ma va bene così. Aver fatto l’architetto rientra nel mio percorso di artista. È un momento passato della mia vita con il quale convivo serenamente.
Sei appena arrivato a New York: qual è la tua impressione del mondo dell’arte contemporanea della città?
È un mondo fortemente autoreferenziale. Una buona fetta dell’arte contemporanea di New York si basa sull’essere introdotto da qualcuno che conta. Magari è lo stesso anche in Europa, ma qui è più evidente, quasi sfacciato. Soprattutto per questo, secondo me, troppa arte che vedi in giro in questa città è spersonalizzata.
Altre scoperte rispetto all’Europa?
Mi ha sorpreso la continua richiesta di autopresentazione da parte dell’artista. I cosiddetti statement. Porcate. Abitudine che verrà presto spazzata via.
E quando qualcuno ti chiede di presentare la tua pittura, cosa rispondi?
Che non ho uno statement. A chi insiste, rispondo con una frase non mia: “È solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose che ci si avventura a cercare quello che c’è sotto. Peccato che la superficie delle cose sia inesauribile”. È di Italo Calvino.
Davvero nient’altro da aggiungere?
Che ho iniziato tardi.
Che vuol dire tardi?
La mia prima produzione ufficiale come pittore l’ho fatta nel 2009 a Barcellona. Avevo 29 anni. Lì è cominciato tutto, ma sono ancora un outsider. Anche dopo due mostre alla Tazza Gallery di Chelsea sento che il bello deve ancora venire.
I tuoi ultimi lavori contengono riferimenti allo spazio architettonico in cui vivi e al tuo corpo.
Beh sì, dipingo spesso il mio muro. Nell’era di Facebook, io dipingo il muro che uso per lavorare… Ma la mia pittura va al di là del contenuto. Il contenuto è un pretesto. Per me la pittura è contenitore di talento. È modo e sostanza. E poi è tono musicale.
La tua pittura può essere considerata italiana o questa accezione nazionalista per te non conta più?
Certo che la mia pittura è italiana.
Che vuol dire per te essere un pittore italiano?
Niente. Solo la mia storia. Che è anche la nostra di storia. Ti influenza. Così come mi ha influenzato la crocifissione, tanto per farti il primo esempio che mi viene in mente. Sono cresciuto nel quartiere italiano di Bolzano. In Alto Adige ci sono più crocifissi che donne. Qui i tedeschi bestemmiano in italiano. In questa zona divisa e di confine, crocifisso e bestemmia sono due forti elementi unificatori.
Qual è il tuo rapporto con il cristianesimo? Sull’argomento mi sembri polemico.
Nessuna polemica, anzi. Semplicemente ho paura di chi è fedele a qualcosa. Mi fa paura. La spiritualità è un’altra cosa.
Perché ti fa paura chi crede in qualcosa?
Perché vuol dire mettere la tua vita nelle mani di qualcun altro. Inaccettabile.
Quali sono i tuoi veri maestri pittorici?
Senza esagerare, il primo è senz’altro Roberto Baggio.
Il calciatore?
Roberto Baggio è un sublime esempio di qualcuno a cui non importava quello che faceva, ma come lo faceva. Il gesto. L’eleganza. La firma. Il segno. Non so come dirti, ma per me lui è un grande maestro.
Quindi?
Mohammad Alì o se preferisci Cassius Clay. In pittura, come in ogni arte, la personalità è tutto. Per me la grande pittura deve cercare personalità e cuore. Come Mohammed Alì quando combatteva.
Qualcun altro?
Il primo Vasco Rossi. Incarnazione vivente della definizione “avere i coglioni”. Il mondo è pieno di gente che si preoccupa. E l’arte non si salva da questo fatto. Un artista deve aver voglia di fare arte prima e di far vedere il proprio lavoro poi. Nient’altro. Ecco spiegato cosa è per me il Vasco Rossi dei tempi migliori.
Le tue prossime opere?
Non ho un progetto. I contesti figurativi che rappresento seguono un filone spontaneo. Qualcosa che si sviluppa da sé. E in sé, senza sapere mai cosa succede.
Alessandro Berni
http://www.alessandrodelpero.com/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati