Dentro l’immagine. Un esercizio a cuore aperto di Romeo Castellucci e Silvia Rampelli
“Strutture elementari dell'azione” si intitola il dialogo in azione tra Romeo Castellucci e Silvia Rampelli. È stato presentato all’Università Roma Tre lo scorso 31 gennaio e qui ce lo racconta Attilio Scarpellini.
Alessandra Cristiani, la danzatrice con i capelli rosso Tiziano, si alza da una sedia messa su un lato del palcoscenico della sala Columbus e cammina fino al sipario nero che chiude il fondo: lì, esattamente al centro, resta di spalle, come se non potesse andare oltre. Poi si volta e torna al suo posto. È vestita di chiaro, appare slanciata, rilassata fino alla disinvoltura. Poco o nulla nel suo passo evoca la differenza di peso della danza. Niente in quel poco che fa significa qualcosa.
È il primo movimento delle Strutture elementari dell’azione di Romeo Castellucci e Silvia Rampelli, un evento che non si sa come definire: non è un’esibizione, non è un incontro teorico tra il regista della Socìetas Raffaello Sanzio e la coreografa di Habillé d’Eau. Di certo, è qualcosa che accade soltanto oggi, qui e ora, lontano dai riflettori, nell’ambito defilato dell’Università Roma Tre, un dialogo in azione di pura generosità artistica.
Le luci in questa grande sala che sembra avere spazio da vendere sono accese, e illuminano tutti: la donna sul palco, il gruppo degli spettatori ammassati nei primi sei ordini di sedie, di lato, seduti a un tavolino, i due ispiratori di quello che Stefano Geraci ha poc’anzi definito un “esercizio a cuore aperto”. Un lieve ma sensibile fruscio, forse il motore di un aeratore, turba il silenzio, come il rumore attutito del traffico dietro una finestra che dà sulla strada, o l’uniforme scrosciare di pioggia che per giorni farà da basso continuo alla vita di Roma.
La Cristiani ripete il suo movimento una seconda volta, questa volta indugia più a lungo davanti al sipario; la terza, dopo essere tornata alla sedia, si gira sulla schiena e sta, vuota; la quarta preme il corpo contro il sipario, volta lentamente la testa, guarda in basso, gira il volto e poi avanza di qualche passo verso la platea. È da questo incedere che qualcosa si schiude, si apre, come il click di un otturatore fotografico? Forse. Dalla quarta (o dalla quinta?) ripetizione della sequenza, lo spettatore smette di seguire le singole variazioni, smette di guardare il movimento da sinistra a destra, dalla sedia al sipario perché la progressione non glielo permette. Dallo scroscio cominciano a riunirsi delle molecole di una musica incombente (che poi in effetti cadrà, come un rovescio temporalesco): senza soluzione di continuità ci si ritrova in un flusso, in una durata, nel mutamento di un corpo all’interno di quella organicità che chiamiamo “storia” “racconto” “immagine”.
Ma, più che vedere qualcosa, lo spettatore finisce per perdere di vista quello che vede – come dice Réné Char, il tempo dell’immagine è un “tempo perso di vista” – per scivolare dentro l’immagine, nel viluppo temporale di un dramma che non ha un nome. La grammatica rozza dell’inizio si è ribaltata in una sintassi complessa, la matematica delle aggiunte in un’algebra piena di incognite, dove si affacciano gesti rigorosi, semplici, ma carichi di una simbolicità deflagrante che eccede le premesse anodine – elementari – dell’ azione. Nello spazio vuoto – qualitativamente vuoto – più un gesto è minimo, più grande è la potenza del segno che incide.
Alessandra Cristiani tenendo il braccio attaccato al corpo apre la mano con il palmo in basso, come se premesse l’aria, e questo gesto ridefinisce la sua figura – la sbalza – come l’altro, con cui un braccio fascia il ventre formando una “L”: due geroglifici tanto esatti quanto indecifrabili. Lentamente lo spazio comincia a mutare, con il corpo che scompare e si ripresenta nudo sulla scena, con una frase musicale compatta e implacabile che precipitando (da un cielo sonoro che nel frattempo si è solidificato sopra di noi) lo fissa. Finché la prospettiva della sala non viene rovesciata da una camminata verso il fondo: gli spettatori voltano le teste, poi si alzano in piedi per guardare meglio e seguire i movimenti della danzatrice che dal fondo bianco contempla la propria assenza laggiù, sul palco nero e vuoto. Più piccola, più eterea (ma anche più animalesca) come se si fosse liberata dal giogo di un paesaggio, per scomparire finalmente in un altro, sgusciando dietro una colonna, perdendosi tra le note di un canto.
Come se – e siamo sempre nell’analogia dello spettatore “ipocrita, mio simile, fratello”, il vero campo di battaglia dell’esperimento di Silvia Rampelli e Romeo Castellucci – un’assurda idea di natura baluginasse alla fine, o all’opposto, di qualunque teatro. Nell’insperata libertà in cui si dissolvono i sogni. Tutto è compreso nel raggio di una sola frase ripetuta. Niente è (più) prevedibile nel rebus del suo accadere. Poca favilla gran fiamma seconda. Anche se i sogni, come scrive Georges Didi-Huberman (da qualche parte parlando proprio di teatro), ci lasciano sempre soli.
Attilio Scarpellini
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