Domus, la città dell’uomo. La ricetta di Nicola Di Battista
Su Artribune il tema della nuova Domus era già stato affrontato: adesso la rivista è giunta al quinto numero, ha affinato la sua grafica e oggi le sue eleganti copertine monocromatiche con il piccolo disegno in basso spiccano con la loro semplicità in edicole e librerie. All’inizio di dicembre Di Battista ha presentato la sua idea di rivista e i numeri già usciti a Roma, la città in cui si è formato e in cui lavora. Lo abbiamo incontrato.
Raggiungo telefonicamente il direttore che, dopo la presentazione romana, è tornato subito a Milano per chiudere il numero successivo della rivista. Nicola Di Battista, progettista e docente universitario, è persona erudita e raffinata. Dalle sue parole a Valle Giulia si è potuto evincere che vuole dare una nuova centralità alla figura dell’architetto, professionista che oggi sembra avere perso le sue caratteristiche non solo culturali ma anche “attrattive” nei confronti del mondo.
L’occhio dell’architetto è per Di Battista – noto anche per le sue collaborazioni con artisti contemporanei come Alfredo Pirri, Enzo Cucchi, Ettore Spalletti, Mimmo Jodice, Sol LeWitt, Alan Fletcher – il filtro interpretativo della realtà contemporanea, e quindi anche dell’arte e del design. Parla di un mondo del lavoro in cui il progetto si scontra con burocrazia e organi terzi che hanno il potere di decidere come si costruisce la città o come si interviene sul costruito. La sua “città dell’uomo”, sottotitolo di Domus, si pone in antitesi rispetto a quella “città dei clienti” oggi dominante da Occidente a Oriente e che sembra rispondere esclusivamente a esigenze edificatorie.
Gentilissimo e appassionato, racconta della sua nuova Domus e di come si è andata affinando rispetto al canovaccio iniziale. Il suo progetto editoriale è basato sull’approfondimento dei temi e sul “ricreare le condizioni collettive indispensabili per dare nuove speranze progettuali al nostro tempo”. In un mondo in cui l’informazione è rapida e veloce e avviene perlopiù su Internet, a una rivista cartacea può e deve essere demandato il compito di proporre approfondimenti e scritti meglio costruiti e più elaborati rispetto a quelli che circolano sul web. Di Battista vuole raccontare storie che parlano di architetti, del loro lavoro, dei loro progetti, siano essi degli edifici o dei prodotti. Si sofferma molto sui luoghi dove l’architetto lavora, sugli studi, sulle persone che accompagnano il loro lavoro, sulla genesi delle idee e sul processo che porta al progetto finale. Vuole rimettere insieme i saperi che in questo periodo si sono separati: “Il mondo ha bisogno degli specialismi, ma questi non possono risolvere la complessità contemporanea”, dice Di Battista, che non nasconde la sua personale avversione contro di essi; lui vuole soprattutto indagare la maniera di lavorare dell’architetto – che, non a caso, è il titolo della lunga intervista a Michele De Lucchi pubblicata sul primo nuovo numero – e lo fa andando dietro le quinte, e anche dando corpo a Coriandoli, la sezione della rivista che racconta appunto tutto quello che serve all’architetto per svolgere il suo lavoro quotidiano. La sua è una visione dell’architettura sorretta da un preciso punto di vista, ma non settaria, ovvero filtrata da un pensiero, nettamente in contrasto con chi ha raccontato in passato solo le tendenze in atto; una visione che rimette al centro il lettore, così come l’architetto deve rimettere al centro l’uomo e i luoghi che lui abita.
Nei numeri più recenti della rivista le sezioni che in partenza erano dei focus stanno diventando dei filoni, come quello della formazione. Di Battista è convinto che l’Europa può oggi trasmettere qualcosa di importante agli altri Paesi, che è la sua millenaria cultura, attraverso le sue scuole di architettura. Da questo assunto ha origine l’approfondimento sulla formazione, dai singoli corsi alle scuole di architettura, sviluppato dapprima con interviste ai progettisti-docenti sul loro modo di lavorare e sul come trasmettono il loro sapere agli studenti; poi analizzando i lavori degli studenti, ovvero come hanno recepito gli insegnamenti e li hanno tradotti in progetto. E anche a dicembre è stata messa a punto da Matt Shaw in collaborazione con il Centro Studi (la nuova struttura interna che si occupa di ricerca composta da giovani architetti e studiosi), la selezione delle 100 top school europee di architettura e design, in continuità con quanto fatto l’anno precedente da Joseph Grima.
I maestri che lo accompagnano in questa avventura non sono accomunati da una cifra comune, anche se la scelta è stata fatta fra architetti – non archistar! – con un rapporto preciso con l’architettura, progettisti che raramente ripropongono ad libitum una certa loro cifra stilistica, ma sono attenti ai luoghi e alla storia. E che, naturalmente, hanno un sentire comune con il direttore. La definizione di “maestro” non è di moda e non è contemporanea, e oggi la realtà, soprattutto nel design, sta proponendo scenari diversi: tuttavia secondo Di Battista l’incontro e l’interazione fra un maestro e un giovane è prezioso, e può essere foriera di cose straordinarie. C’è una grande energia nei giovani, e voglia di mettersi in gioco e grande curiosità anche nei confronti del contributo che può dare uno strumento come una rivista. Di Battista l’ha sperimentato di persona durante la sua presentazione a Mendrisio, in cui è stato accolto con una scenografia quasi poliziesca di stampo cinematografico, con tavolino e lampadina puntata, tipo interrogatorio: l’interrogato era lui, e i detective gli studenti.
Monica Scanu
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