È possibile il sostegno indiretto alla cultura?
Cultura e fisco, due parole attorno a cui gravita una fetta considerevole del dibattito contemporaneo sulle policy culturali. Il rapporto che si sviluppa fra questi due termini è uno degli elementi che più caratterizzano l’indirizzo del sostegno pubblico alla cultura, che nel nostro Paese, come sappiamo, si basa principalmente sul finanziamento diretto alle singole organizzazioni.
Fra le voci della scena culturale, una delle posizioni più forti è quella che si schiera apertamente contro i progressivi tagli operati ai finanziamenti delle attività culturali, condannandoli e invocando nuovi investimenti finanziari, in risorse umane, in infrastrutture, in fondi attraverso cui sostenere gli studi di fattibilità per i progetti. L’arte e la cultura costituiscono settori strategici per l’economia, settori nei quali vale la pena di investire per la crescita e la riconversione economica, così come per la qualità della vita, ma è diventato quanto mai fondamentale fare un “salto culturale”, ripensare il ruolo dello Stato e le sue modalità di intervento nel settore.
Come ho avuto modo di affermare di recente – mi riferisco all’articolo del 17 gennaio L’arte ci salverà – l’azione pubblica deve giocarsi principalmente su due fronti: la politica fiscale e tributaria e l’incentivazione della responsabilità imprenditoriale. Lo Stato deve ripensare se stesso quale facilitatore dei processi e delle dinamiche artistiche culturali, abbandonare il mecenatismo acritico per dedicarsi alla regia strategica, strutturando un ecosistema di incentivi e misure indirette che favoriscano la crescita del settore e dell’economia nel suo complesso.
Stimolare l’intervento del privato nella cultura è uno degli imperativi da seguire e, per farlo, è necessario creare un sistema incentivante, ovvero un sistema che agevoli e renda possibile una partecipazione più profonda e diffusa alle attività culturali. In quest’ottica, è innanzitutto fondamentale proseguire sulla strada della deducibilità totale delle erogazioni liberali, estendendo l’agevolazione anche alle persone fisiche e agli enti non commerciali, rendendo di fatto possibile lo sviluppo del mecenatismo diffuso di cui molto si è parlato negli ultimi anni. Una battaglia, quella dell’estensione della deducibilità totale, portata avanti da diverse personalità – dall’ex Ministro dei Beni e delle Attività Culturali Galan all’ex sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni – e che deve ora giungere al risultato.
Il successo del mecenatismo diffuso, che presuppone un approccio alla cultura sicuramente più vicino alla tradizione calvinista che a quella cattolica, dipende da fattori sociali e civili. Proprio per questo vi è la necessità da parte delle istituzioni di dare un segnale forte, un segno tangibile della volontà di guidare questo cambiamento culturale, rendendo incentivante anche per il singolo sostenere l’offerta del territorio e diventare parte attiva del sistema.
Se da un lato è importante rilanciare il fundraising, dall’altro bisogna guardare alla progettualità culturale, con l’obiettivo di stimolare l’intraprendenza delle organizzazioni e agevolarle nell’ideazione, nella programmazione e nel lancio di iniziative, eventi, attività. In questo senso, possiamo trovare un modello interessante guardando oltre oceano, agli States: i musei e i teatri statunitensi, gestiti prevalentemente da organizzazioni non profit, sono esenti da tasse sui costi operativi, il che tradotto significa che non pagano tasse sugli immobili, sul reddito e sulle vendite.
Da questo confronto, sicuramente da approfondire e tarare con razionalità, possiamo partire per ripensare la tassazione che pesa sulle attività artistiche e culturali portate avanti dai musei, le aree archeologiche e i teatri italiani, valutando la possibilità di intervenire riducendo la pressione fiscale. Si andrebbe così a compensare il taglio sempre maggiore dei finanziamenti diretti, rilanciando l’iniziativa dei singoli operatori e la partecipazione del pubblico.
L’introduzione di misure di sostegno indiretto alla cultura ha il pregio di non fare favoritismi: l’intervento dello Stato si misura nella creazione di un sistema di incentivi per il settore, che non fa differenze fra un museo ed un altro, l’obiettivo è quello di facilitare l’azione, rilanciare l’intraprendenza degli operatori. Sono gli operatori, infatti, che ideando e programmando le attività culturali accettano di volta in volta il rischio – o dovrebbero imparare a farlo – e sono quindi proprio questi soggetti i meritevoli destinatari degli interventi pubblici, che sono indispensabili ma che al tempo stesso non devono rendere i destinatari completamente dipendenti dal finanziamento diretto.
Procedere su questa strada vuol dire, quindi, avvalorare una presa di responsabilità da parte delle organizzazioni culturali. Siamo molto lontani, per fare un secondo confronto, questa volta nazionale, dalla recente proposta che sostiene la creazione di un Fondo per la Progettualità Culturale, attraverso cui finanziare gli studi di fattibilità esecutivi commissionati alle società di consulenza, per dare maggiore “spessore” alla progettazione economica e finanziaria.
L’intervento del pubblico deve focalizzarsi sugli operatori del settore, intendendo con questo le organizzazioni culturali che gestiscono le attività in prima persona, e mirare alla creazione di un ambiente che agevoli l’attività, stimoli l’operosità e faciliti il rapporto con il privato. Questa si chiama regia strategica.
Stefano Monti
http://www.tafter.it/2014/01/17/larte-puo-salvarci/
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