Nonostante tutti i tentativi di “fuga identitaria” che periodicamente si presentano nel nostro immaginario, poche volte forse come in questo momento l’essere e il sentirsi italiani si sono condensati in questa atmosfera psichica molto negativa e stranamente molto tangibile, in questo disagio innominabile che ci attraversa più o meno tutti e che sostanzia la nostra identità collettiva, in senso per il momento paralizzante.
Sicuramente la matrice cattolica e soprattutto controriformista rimane importantissima per comprendere il nostro carattere nazionale. Il meccanismo del permesso, l’alternanza e l’equivalenza sostanziale tra punizione e intercessione la dicono lunga su chi noi siamo e su chi siamo stati. Il punto è la deresponsabilizzazione, il demandare continuamente ad altri le nostre scelte di vita (a livello individuale e collettivo): qualcuno più in alto di noi sa sempre che cosa è meglio per noi, sa cosa è giusto, cosa è più conveniente… È un processo storico che va avanti da secoli, profondamente installato nella psiche collettiva. Come scriveva Gaetano Salvemini in Cattolicismo e democrazia: “Questo è il lato più atroce dell’insegnamento morale quale è impartito dai papi e dal clero: che esso sviluppa i lati vili della natura umana, avvezzandola a non sentire le proprie responsabilità, ma a mettere le decisioni finali nelle mani di un sacerdozio, che non dà il consiglio dell’amico, ma dà l’assoluzione o la condanna del giudice” (cit. in Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Laterza 2012, p. 83).
Detto ciò, questa tensione (peccato, punizione, assoluzione-perdono, condanna, intercessione, peccato, ecc.) nasconde anche un nucleo oscuro, che è probabilmente anche la radice dell’identità culturale italiana così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi secoli e decenni; fino proprio a una trentina di anni fa, laddove possiamo individuare una frattura, una cesura fondamentale (si incrinano e si avvitano anche questi meccanismi mentali secolari).
L’Italia, in questo momento storico, rappresenta proprio questo: la possibilità di questo altrove, calata in maniera solo apparentemente paradossale nel grumo attuale di devastazione morale, psichica, civile e sociale. Quando troveremo il modo di dare un nome a questo disagio, di articolarlo culturalmente (e credo che ci siamo molto vicini…), la forza che ci immobilizza e che ci tira giù diventerà la stessa che ci spinge in avanti. Non sarebbe del resto la prima volta che ci accade: sessant’anni fa è avvenuto qualcosa di molto simile.
L’Italia è il sentimento di questa attesa, il terrore di non farcela e il sollievo della salvezza; la grandezza che viene fuori proprio dalla disfatta, dal senso di sconfitta e di perdita. A partire dagli anni Ottanta, abbiamo smarrito proprio questo, ed è stata la rinuncia più grave, contro ogni apparenza: il senso della perdita. Dobbiamo riconquistarlo, e solo allora capiremo come si fa a rialzarsi. Non è possibile, infatti, rialzarsi senza per così dire fare effettivamente l’esperienza di questo rialzarsi (ma solo sognando di rialzarsi, o desiderandolo); non è possibile rimuovere il dolore e il sacrificio dal proprio percorso. È un’illusione pericolosa, che porta a distaccarsi da sé e dalla realtà.
L’Italia si è costruita negli ultimi decenni come una sorta di distopia realizzata; e nessun modulo narrativo come la fantascienza è forse adatto a descrivere ciò che accade e sta accadendo alle nostre strutture sociali, politiche, mentali. La distopia perfetta è quella in cui quasi tutti negano di abitare una distopia (nella distopia non è pensabile nessun “fuori”; essa si rende trasparente e irriconoscibile in quanto tale, scompare del tutto perché pervade tutto; e il momento in cui emerge chiaramente l’idea del “fuori” coincide con la fine vera e propria della distopia), negano di viverci fin da quando sono nati, fin da quando esistono e hanno memoria, o di esserci scivolati a un certo punto (in questo caso non ricordano com’era prima, e se lo ricordano rimuovono il dolore della perdita, il disagio della sconfitta): negano questa qualità, e negano anche la loro vita.
Una nostra specialità nazionale è proprio la capacità di “congelare” e sterilizzare i momenti più critici del nostro passato (il Risorgimento, la Resistenza, gli anni Settanta), imbalsamandoli nel monumento che allontana noi da noi stessi: è un modo – efficace – di stabilire una distanza, e di rimuovere appunto i traumi. Ma non ha molto a che fare con la critica, o con la vita. Perché infatti occuparsi degli anni Settanta con il linguaggio degli anni Settanta (elaborato da altre generazioni di artisti, con altri sistemi di valori a orientare le loro scelte e con altri fini, e depurato opportunamente di ogni contenuto politico “disturbante”), e non del presente, della propria esistenza e di quella degli altri, con un linguaggio attuale?
Occorre incominciare a pensare che la rimozione non riguarda solo gli anni Settanta, ma anche e soprattutto il presente. La nostalgia (a livello personale e collettivo) è un modo di evadere da un tempo che si percepisce come troppo difficile da affrontare. Siamo di fronte a due o tre generazioni di artisti che sfuggono alla definizione del presente, nel momento stesso in cui quello italiano è uno dei presenti più tumultuosi, magmatici, spettrali e perciò interessanti dell’ultimo secolo.
Occorre ricostruire l’idea che l’arte – anche e soprattutto quella più significativa, rilevante, importante – possa e debba essere popolare. Occorre annullare la distanza e il distacco abissale che si è stabilito progressivamente negli ultimi trent’anni tra gli italiani e l’arte, la cultura in generale (ma in particolare quella contemporanea).
Christian Caliandro
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