L’Italia e la rinuncia al contemporaneo. Lo j’accuse di Marco Bazzini
“Ormai è palese che l’Italia rinuncia al contemporaneo, alla sperimentazione e alla ricerca. Unica nazione che non sembra interessata al proprio presente e di conseguenza a immaginare un futuro che non sia un miope domani”. Parola di Marco Bazzini, direttore uscente del Centro Pecci di Prato. E se lo dice lui…
La situazione dei musei del contemporaneo è sotto gli occhi di tutti e non riguarda soltanto quelli che ormai da troppi mesi sono i più chiacchierati, ma anche gli altri non sembrano godere di ottima salute, avendo abdicato alla mission e al ruolo di riflessione sul nostro tempo, che invece dovrebbe appartenere loro. Lo stesso magro destino sembra coinvolgere anche l’università e la ricerca, imbrigliate in una continua, infinita riforma che paralizza il sistema più che svilupparlo.
A questa sconsolante condizione delle istituzioni dovuta a una scoraggiante idea di politica culturale sembra ora aggiungersi anche l’opinione di alcuni addetti ai lavori che ormai si stanno piegando a una logica economicista e utilitaristica, rinunciando a ogni guizzo di fantasia per assumere modelli museali eD espositivi ormai consolidati. La logica esclusiva della managerialità (nell’ultimo decennio però i manager sono stati più volte a scuola di creatività dagli artisti, mentre un direttore di un museo li frequenta tutti i giorni) sembra ormai irretire tutti, non solo i politici che hanno la loro, non la nostra, necessità di massimizzare ogni atto.
Invece di provare a scommettere su modelli e possibilità nuove, che peraltro restituirebbero molto di più sul piano dell’immaginazione per il mondo, si punta a replicare sull’usato, il già acquisito nella logica dell’eterno secondo. Si lavora più sulle somiglianze che sulle differenze. Considerando il fatto, è banale anche a dirsi, che non sempre ciò che ha funzionato in un contesto può dare risultati in un altro.
Ancora una volta si sta perdendo un’occasione sottovalutando le potenzialità di un momento tragico come questa nuova austerity che stiamo vivendo; la crisi ci sta portando a ripiegarci nuovamente su noi stessi, a non uscire dal conosciuto, e non è da stimolo a mettere in moto nuove opportunità.
Tutta la discussione intorno ai nostri spazi culturali da ormai troppo tempo si è limitata al problema del pubblico, a come attrarlo soprattutto come turista. Non che questo non sia importante, ma forse per prima cosa andrebbe declinato al plurale, pubblici, facendolo uscire così da un anonimo saldo di numeri e restituendogli magari anche un volto. Sembra quasi che siano i visitatori a dover soddisfare i bisogni del museo, arrivare in massa e consumare l’offerta, e non questo i bisogni delle persone, come invece credo dovrebbe essere. Si ragiona ancora troppo in termini di consumatori e non di partecipanti, come invece la cultura e l’arte dovrebbero fare. Il museo resta così uno spazio di fruizione e non di condivisione di saperi tra molti, luogo di attrazione soprattutto per gli esterni e non di servizio per il territorio su cui incide e la collettività che per prima dovrebbe alimentarlo. Ripartire da un forte legame con il territorio è oggi lo strumento più efficace per creare nuova attenzione, anche all’estero, nei confronti dei nostri musei, che possono così diventare forse non i più belli del mondo, ma sicuramente i migliori e i più ricchi di immaginazione per il mondo.
È davvero inimmaginabile oggi un museo che sappia sviluppare, insieme alle forze anche produttive a lui più o meno prossime, una creazione di conoscenza e di lavoro in molti nuovi settori di questa nostra società 2.0? Non è pensabile mettere al centro dell’attenzione di uno spazio pubblico i temi che questa crisi sta evidenziando e che forse ancora in troppi non vogliono vedere? In fin dei conti, la crisi del contemporaneo è crisi di partecipazione, di legalità, di dignità della persona, dell’ambiente, di dialogo tra diverse culture e saperi che non si relazione più tra loro. Perché un’istituzione legata al nostro presente non dovrebbe occuparsene e non dovrebbe continuare a trasformarsi proprio a partire da queste problematiche? Darwin ci ha insegnato che per sopravvivere in un mondo che cambia dobbiamo evolverci. E la nostra evoluzione è avvenuta grazie a errori di trascrizione che poi non si sono dimostrati tali e non per semplice copia. Con buona pace per i postmoderni.
Marco Bazzini
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