Non sono le colline. Viaggio al termine dell’immagine
“The Counselor – Il procuratore” e la sfida a raccontare il vuoto e l'anima di un cinema reticente. Da “The Canyons” a “Effetti Collaterali”, il cinema che recupera il postmoderno e l'estetica della superficie. Verso una “figurazione astratta”.
L’autore è da sempre il fantasma del cinema. Limitato dal denaro e dal tempo, libero pensatore e al tempo stesso succube del riscontro del pubblico e della critica. A Hollywood, patria del cinema classico e delle grandi fabbriche dell’immaginario, la sua figura occupa un posto ancora più problematico, all’interno o a lato della produzione seriale di capitale finanziario e immaginario.
Come raccontare, oggi? Cosa possiamo dire del nostro mondo in polvere senza cadere nell’ipocrisia, nel feticcio, nella merce a rapido consumo? Ridley Scott ha una risposta, per quanto parziale: “Quando tu smetti di esistere, il mondo fa lo stesso”, come si sente dire l’avvocato interpretato da Michael Fassbender in The Counselor – Il procuratore. Attorno alla storia, all’autore, al film, solo l’oscurità. Scott è un regista non a caso molto vicino al cinema commerciale e ad alto tasso di effetti speciali e intrattenimento, e qui sembra quasi prendersi gioco di se stesso.
Il mondo di Scott e, soprattutto, dello scrittore Cormac McCarthy (qui alla sua prima sceneggiatura originale) è cinico e crudele. Non ci sono architetture narrative, grandi miti da creare. Un uomo cerca di fare il colpaccio, si lascia coinvolgere negli affari sbagliati ed è chiaramente destinato a fallire. Non si vede quasi mai l’azione, la scintilla risolutrice dell’intreccio: solo ammonimenti e conseguenze di cui siamo testimoni inermi. L’immagine arriva sempre troppo tardi, dice poco ed è inconsapevole. Nessun narratore onnisciente, nessuna verità: solo il fantasma di un cinema – e di un genere: il noir, il western, il thriller – impossibile se non come citazione, omaggio e recupero nostalgico. The counselor è a tutti gli effetti un film senza genere e senza autore, o, almeno, con autore reticente. Un autore che dichiara che non c’è più nulla da raccontare; ma non lo stiamo forse raccontando, non è questa forse materia narrativa incandescente e terribilmente attuale? In questo risiede l’anima di certo cinema autoriale contemporaneo, affascinante proprio perché sotto scacco. Schiacciato, da una parte, dal cinema commerciale puro e dal suo target sempre più adolescenziale, e, dall’altra, dalla consapevolezza che non è più possibile essere ingenui e credere alle proprie storie, alla propria arte. Scacco economico e simbolico.
Sembra, in altri termini, che ci sia una certa tendenza nel cinema americano: l’impossibilità di creare nuovi miti a cui si accompagna, tuttavia, un disperato bisogno di recuperare l’autenticità e la “cauzione del reale” (Baudrillard) delle superfici: toccare con mano i corpi, le architetture, la violenza. L’obiettivo sembrerebbe quello di esplorare nuovi territori del cinema nell’era del digitale e della produzione liquida di immagini. Non possiamo non raccontare: è nella natura umana. Se la superficie è tutto quanto ci sia dato sapere, allora l’unico sguardo possibile è quello nevrotico, ossessivo.
Prendiamo The Canyons di Paul Schrader: cinema liquido nella sua forma più pura, finanziato tramite crowdfunding e prodotto con tutti gli espedienti e le difficoltà di un’opera artigianale. Il film si apre con un sipario di rovine, immagini di sale cinematografiche abbandonate e desolate: un’epoca ormai chiusa. I protagonisti della storia scritta da Bret Easton Ellis sono appiattiti su un’immagine che non ha più il respiro della grande narrazione, né la sacralità della sala che ne dava sanzione di valore. Lavorano nel mondo del cinema, ma non li vediamo mai su un set. Quello che vediamo sono orge e filmini porno ripresi con lo smartphone. Gli uomini vuoti che smaniano e sudano e fanno sesso davanti ai nostri occhi non sanno comunicare né immaginare: sono pura pelle, luminosa e drappeggiata, come le ville e le architetture luccicanti di una Los Angeles mai così disperante. Qui, la sessualità è l’unica forma possibile di contatto. Ma anche la passione pare artificiale e costruita, quasi una performance.
Entrambi i film (non le possiamo più chiamare pellicole) riflettono sull’impossibilità di raccontare una storia. E, soprattutto, sull’impossibilità del controllo e della comprensione del mondo. L’avvocato di Ridley Scott cerca una facile via all’ascesa sociale, ma le sue piccole ambizioni saranno presso schiacciate da un mondo che non comprende e che non può gestire. Il produttore di The Canyons rivela al suo psicologo che non riesce a sopportare quando non ha il pieno controllo della situazione, e della propria immagine. Se non si può controllare la vita, si possono controllare le immagini, ci si può rifugiare all’interno. E infatti queste sono perfette, abbacinanti e fredde, in questo molto vicine a quelle di un altro regista entomologo, Steven Soderbergh. Il suo ultimo film per il cinema, Side Effects, presenta lo stesso problema del controllo, questa volta farmacologico. Il film è meno sperimentale dei due precedenti e molto presto rientra nella formula del thriller, ma il senso non cambia: non ci serve sospendere l’incredulità, il film è una macchina di segni che gira a vuoto e si aggrappa sui volti e le pareti per non dissolversi in un oceano di pixel.
Si potrebbero portare altri esempi di questo cinema (due su tutti: Spring Breakers di Harmony Korine e Road to Nowhere di Monte Hellman). Il cinema non può che essere figurativo, che sia analogico o digitale; eppure, complice la tecnologia, si ribella alla propria natura, a quello che una volta si chiamava specifico filmico. Questa corrente del cinema americano, per quanto eterogenea, emerge da una stessa consapevolezza. Si potrebbe dire che ha molto a che fare con i quadri di Pollock e Twombly, e molto meno con gli assalti alla diligenza e le traversate del Mar Rosso. Il cinema si è fermato a pochi minuti dalla conclusione di Zabriskie Point, o dopo i titoli di coda, a scelta.
Questo approccio al cinema non è un prodotto del XXI secolo, ma sta riemergendo come un fiume carsico dopo anni in cui è rimasto in secondo piano, a lato delle preoccupazioni dei grandi maestri della settima arte. Lo si può chiamare cinema postmoderno, al netto degli abusi che questo aggettivo ha subito fino a perdere quasi ogni significato. Se dobbiamo trovare un padre nobile per il cinema debole, allegorico, che sembra quasi arrivare in ritardo sul luogo del misfatto dopo che tutto è già compiuto, possiamo evocare solo un nome: Marco Ferreri. Dopo la morte di Dillinger, le immagini non possono che essere inafferrabili e rimandare ad altro, incomplete. Rimangono le rovine delle vecchie sale, rimangono Beckett e Brecht. Rimane il corpo, forse. Corpo che si agita, fa sesso e sanguina. Un continente da riscoprire.
Alessandro Gaudiano
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