L’Italia è un paese dove sono accampati gli italiani.
Ennio Flaiano
Occorre indagare a fondo la percezione esterna dell’identità italiana. Soprattutto nel mondo anglosassone, essa è inevitabilmente legata all’immaginario degli anni Cinquanta e Sessanta: La dolce vita, Mastroianni, la Vespa, la Cinquecento… Questo tipo di universo narrativo è estremamente attraente per uno spettatore straniero, mediamente colto e impegnato in una professione creativa.
Il nostro presente così complesso e difficile non ha praticamente nessuna penetrazione nella percezione esterna: è come se continuassimo a proiettare la stessa immagine e la stessa aura da, appunto, sessant’anni. In questo tipo di processo c’è ovviamente una quota molto alta di nostalgia: il riferimento auratico è un’età dell’oro, e indubitabilmente è abbastanza vero che in quel periodo noi abbiamo prodotto il nostro meglio, finora, in termini di cinema, arte, moda e design. Non è detto che questo tipo di nostalgia sia necessariamente un male: è un patrimonio intangibile, valoriale; una piattaforma se si vuole molto utile, su cui si può costruire nuova una proiezione dell’Italia. L’aspetto interessante – e inquietante – è però che questo tipo di percezione nostalgica ha da tempo intaccato anche il modo in cui noi interpretiamo noi stessi: basta guardare La grande bellezza di Paolo Sorrentino, per esempio, o considerare la maniera in cui le icone del boom economico degli anni Cinquanta vengono usate all’interno dello spettacolo politico; oppure, farsi semplicemente un giro tra le bancarelle nei pressi della Fontana di Trevi a Roma.
Questa fusione di monumenti antichi (il patrimonio storico-artistico) e di oggetti della modernità patinati e congelati è un modo efficacissimo di proporre un’identità culturale collettiva completamente inerte, imbalsamata. Tutto è lì, pronto, ready made: come nelle nostre fiction tv (le peggiori, credo, dell’Occidente), ogni aspetto è orientato alla continua conferma del già noto, del già dato. Esattamente il contrario di ciò che la cultura e l’immaginario dovrebbero fare: suggerire prospettive inedite, orizzonti narrativi da esplorare. Aver introiettato questa retorica è un problema piuttosto serio, perché ci ricaccia continuamente indietro e soprattutto non ci aiuta a rendere vivo il passato (il Rinascimento, il Barocco, il secondo dopoguerra) e a costruire dunque il presente.
Ci lascia invece sospesi nel rimpianto, un po’ come se fossimo i custodi delle tombe di famiglia. Validare dunque la percezione nostalgia della nostra stessa identità è un modo dunque per continuare a rimuovere chi siamo e il nostro presente, e per adattarci disperatamente a un’immagine scolorita di noi stessi (i vitelloni, i latin lover, “il popolo più creativo del mondo”). Basterebbe, come punto di partenza, tornare a comprendere qualcosa di molto ovvio: che la “dolce vita”, così come l’avevano intesa Federico Fellini ed Ennio Flaiano, non è affatto dolce ma amarissima, è il momento in cui Marcello e l’Italia intera perdono un’innocenza che molto probabilmente non hanno mai avuto (Indro Montanelli, Corriere della Sera, 22 gennaio 1960: “Il suo reportage non è una ‘patacca’. Il poco – oh, molto poco! – che vi luce è proprio oro. E il molto che vi puzza è proprio fogna. Del resto, se così non fosse, il film sarebbe fallito come falliscono i reportages quando eludono la verità o non riescono a centrarla. Quindi, amici, vi prevengo se domani La dolce vita vi farà inorridire, non confutatela dicendo: ‘Non è vero’. Perché per esser vero, tutto ciò che qui è raccontato, lo è”. E accedono all’inquietudine dei primi Anni Sessanta.
Dopo aver scandagliato, dunque, la realtà esterna in movimento e in continua evoluzione, la produzione artistica e culturale inaugura gradualmente una grande e originale opera di introspezione collettiva frutto di una modernità faticosamente raggiunta: passa cioè, per così dire, da un’indagine a tutto campo dello spazio esterno a un’analisi dello spazio interno italiano.
Questo momento coincide con una fase misteriosa, l’inizio degli Anni Sessanta, appiattita nell’immaginario collettivo dalla percezione nostalgica (da “anni di plastica”). Sono gli anni di una gigantesca transizione epocale, del passaggio da una civiltà a un’altra, dell’inaugurazione di un futuro alienante (inizia a questa altezza la “mutazione” descritta in seguito Pasolini) percepiti con un senso di sottile angoscia dagli autori più attenti. Ma scrittori, registi e artisti non rinunciano a interrogare la realtà storica in cui vivono: piuttosto, aggiorneranno radicalmente i propri mezzi, per catturarne le trasformazioni e le novità che esse portano con sé. Il “silenzio spaziale” di cui parla a un certo punto Goffredo Parise è lo stesso, per esempio, che domina gli undici minuti finali de L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni, in cui la cinepresa abbandona completamente la vicenda umana che aveva seguito fino a quel momento, e si sofferma sugli oggetti, sul paesaggio urbano. E l’introspezione condotta da opere come Otto e ½ (1963), Memoriale (1962) di Paolo Volponi, La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi e Fratelli d’Italia (1963) di Alberto Arbasino, e da film come Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, I compagni (1963) di Mario Monicelli o Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli è pervasa, inevitabilmente, di elementi di forte critica sociale, che illuminano quello che si configura come “il lato oscuro del boom”.
Questi sono gli aspetti di quel passato (che molto spesso viene idealizzato), aspetti tra l’altro vicinissimi alla nostra sensibilità attuale, che andrebbero recuperati per riconfigurare integralmente e radicalmente il tipo di percezione dell’identità italiana e la sua rappresentazione culturale proiettata verso l’esterno. Abbiamo bisogno di nuove narrazioni culturali dell’Italia e dell’italianità, che fuoriescano finalmente dall’autocelebrazione retorica, così come dall’autocommiserazione (l’altra faccia del medesimo atteggiamento, se ci pensiamo).
Christian Caliandro
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