Siamo in guerra. Una guerra civile. Iniziata forse da prima che nascessimo.
Siamo cresciuti in guerra e come sempre, come i figli dei lunghi conflitti, come i bambini cresciuti durante la Guerra dei Trent’anni o in tutte le altre guerre che hanno costituito uno scenario storico, noi siamo la generazione più povera, venuta su con niente, senza nemmeno la memoria dell’abbondanza o, semplicemente, del benessere. Se fischiano i proiettili a un palmo dalle nostre orecchie, non ci giriamo. Se piove, non ci ripariamo. Tutto questo, per noi, è normale. Costruire, invece, no, non è normale. A quello non pensiamo. Perché niente si può costruire durante una guerra civile. Non ci sono nemmeno veri e propri eserciti, reggimenti, comandi, macchine, aeroplani, portaerei. Una guerra civile si combatte con le unghie e con le ossa. Altre armi sono i pasti quotidiani. Chi li riesce a fare resta sul campo anche domani.
Rileggo una memoria di Benedetto Croce sulla guerra civile degli Anni Quaranta, quando si dissolse il concetto di patria attorno a cui unirsi e si dovettero cercare nuove certezze. Non c’era allora più un “noi” e non c’è neppure ora. Una guerra civile prescinde dal sangue e dal territorio, anzi, una guerra civile oppone lo stesso sangue sullo stesso territorio. Per questo, una guerra civile è un conflitto combattuto ai livelli dello spirito. E, dunque, non ci sono armistizi, accordi, patti. Si combatte fino alla fine, fino alla cancellazione di uno dei due scenari, o, se non proprio alla cancellazione, fino alla sua riduzione in catene, al suo confinamento in riserve zoologiche.
Siamo in guerra. Da che mi ricordo. E, se torno indietro con la memoria, rivedo le uniformi arrangiate dei cittadini combattenti che avevano vissuto in un mondo senza guerra e per tornare al quale avevano iniziato a combattere dopo che le cose erano cambiate. Combattevano in casa e fuori casa. Combattevano nell’allevarci. Nel parlarci della bellezza, dell’identità, della Storia della nostra civiltà, di un’idea di uomo e di società che fosse mille miglia al di sopra della soglia di dignità. Ci armavano passandoci i loro libri, e noi maneggiandoli ci tagliavamo e scoprivamo che la carta è acuminata come le lance dei guerrieri antichi e che, anzi, le lance dei guerrieri antichi erano fatte di carta. I nostri padri e le nostre madri combattevano perché noi non crescessimo in guerra, perché le nostre ricchezze non finissero nel tritacarne della macchina del sangue, perché non fossimo costretti a bruciare i mobili delle nostre regge per scaldarci, mandando in fumo la bellezza che ci aveva fatto diventare dèi. Ma non è andata come loro avrebbero voluto. Fuori piove ancora forte. In casa fa freddo. E la casa stessa è ridotta a poco più che una maceria. La guerra continua.
Ogni giorno è un giorno di guerra e, a lungo andare, ogni giorno è uguale all’altro. Ci siamo abituati alla temperatura del conflitto. Siamo cresciuti in questo clima. Siamo abituati a perdere tutto quello a cui teniamo. Facciamo sempre meno resistenza, perché abbiamo imparato a subire le sconfitte, le abbiamo somatizzate, messe in conto. Perché siamo figli della guerra. Conosciamo soltanto la guerra. Combattiamo per sopravvivere. Ormai solo per salvarci, non più per salvare. Ecco, credo che in una guerra civile sia questa la differenza tra i noi e i loro. Al di là del sangue e del territorio. Una guerra dello spirito è una guerra tra chi combatte per salvarsi e chi combatte per salvare. E chi siamo noi? E loro?
In una guerra civile i soldati sono i civili. Non fanno parte di un esercito. Sono carne per una battaglia tesa tra l’indifferenza e la paura. I civili sono quelli che hanno la memoria più corta. Hanno dimenticato l’ispirazione dei padri e bruciato i loro libri per scaldarsi d’inverno, per salvarsi.
E noi, invece, chi siamo? Noi che abbiamo salvato le biblioteche nel nostro petto, noi che abbiamo conservato la scrittura e la esercitiamo, chi siamo?
Siamo in guerra. E a noi ora tocca essere i capitani, i generali, i comandanti. Abbiamo raccolto questi gradi dalle giacche dei nostri padri quando erano troppo stanchi per combattere ancora, quando i colpi ricevuti gli avevano fatto perdere la memoria, la lucidità, quando toccava ormai a noi. A noi tocca ricordare ai civili perché siamo in guerra. A noi tocca ricordargli che l’importante non è salvarsi, ma salvare. A noi tocca spiegare il perché dobbiamo vincere questa guerra. E il motivo è semplice. Quella che stiamo combattendo è una guerra civile, una guerra di civiltà.
Gian Maria Tosatti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati