Teatro Valle. Ecco perché Matteo Renzi ha ragione da vendere
Il Teatro Velle Occupato? Un modello da non imitare. Fanno rumore le affermazioni di Matteo Renzi sul caso romano, a cui viene contrapposta la vicenda del Teatro della Pergola, a Firenze. Il Premier incaricato rilancia così la sua idea di bene comune: legalità, sviluppo e buon governo. Altro che occupazione
Italia in subbuglio. Mentre il Presidente del Consiglio incaricato lavora alla sua squadra di governo, i dibattiti arroventano le piazze mediatiche e virtuali, tra speranze, scongiuri, pronostici, critiche al vetriolo. Impazza dunque il toto-ministri, e anche sul nome destinato a un Ministero tanto strategico quanto bistrattato, quale quello dei Beni Culturali, c’è ancora mistero. Ma il tema della cultura, verrebbe da credere, non è forse così secondario per il giovane Primo Ministro.
Non lo è, innanzitutto, perché Matteo Renzi ne ha fatto – con qualche merito, qualche flop (l’Ex3, ad esempio) e qualche superficialità – un leitmotiv della sua stagione di Sindaco, appena conclusa. E proprio nel suo discorso di commiato al Comune di Firenze, l’ex primo cittadino ha dedicato alla cultura ampio spazio. Con un paio di battute che hanno dato fuoco alle polemiche: “Quando mi dicono che per salvare la cultura bisogna fare come stanno facendo al Teatro Valle di Roma, io dico che ci sono altre soluzioni, come ad esempio abbiamo fatto noi con il Teatro della Pergola, il più antico d’Europa”. Una frase che contiene un’indicazione chiara. Per fortuna.
L’occasione è dunque la difesa del lavoro fatto con la Pergola, teatro antichissimo e prestigioso, sottoposto a svariati restauri, con lunghi periodi di stasi e di incertezza, oggi ampiamente rilanciato grazie a un’operazione promossa dall’amministrazione Renzi: nel gennaio del 2011 fu acquisito dal Comune, passando sotto la gestione della Fondazione Teatro della Pergola, costituita dal Comune stesso e dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. Un modello virtuoso, contrapposto oggi alla deriva del Valle, di cui sfuggono finalità, senso e ragioni.
“Anche se La Pergola non è occupata, è un bene comune “, ha aggiunto l’ex sindaco nel suo discorso a Palazzo Vecchio. “Non capisco proprio chi sostiene che bene comune sia soltanto il modello che prevede l’occupazione, come nel caso del Valle di Roma”. Verità, non c’è solo quella via per ristabilire un principio giusto. L’etica del bene comune, troppo spesso associata all’idea di abusivismo e di autogestione, si è così trasformata in retorica. Depotenziandosi, svilendosi, persino ridicolizzandosi. Peggio: diventando mainstream. Dove sta andando il Valle? Perché dopo tre anni è ancora in una condizione di illegalità, senza che le Istituzioni abbiano raccolto il senso dell’originaria protesta, correndo ai ripari? Dov’è il dialogo virtuoso tra occupanti e amministrazioni? Dove sta il successo di una iniziativa che poteva e doveva essere di rottura e di denuncia, ma non certo di comodo?
Il Teatro Valle continua a non avere uno statuto giuridico, dal momento che – piaccia o non piaccia – il Prefetto di Roma non ha riconosciuto la ‘Fondazione Teatro Valle bene comune’. Criticato ormai anche da chi in origine aveva sostenuto l’occupazione, il teatro romano sembra sopravvivere in una sorta di limbo anarchico, di cui sono evidenti tutti i limiti. Gino Paoli, in qualità di Presidente della Siae, aveva l’anno scorso denunciato con durezza lo stato di irregolarità di uno stabile “che gode di vantaggi arroganti perché non rispetta le regole della concorrenza, evade completamente le tasse, non versa i contributi previdenziali Enpals e non rispetta alcuna misura di sicurezza per autori, tecnici e spettatori”.
Insomma, una zona franca che rimarca un principio sbagliato: chi arriva, entra e produce qualcosa (qualsiasi cosa, tanto nessuno controlla, tanto non c’è accountability possibile) diventa proprietario. In barba a bandi, regole, criteri di assegnazione e percorsi istituzionali. In spregio di ogni forma – più o meno codificata – di meritocrazia. Semplicemente passa il più prepotente. Un modello impossibile, che di democratico – a ben guardare – ha piuttosto poco.
E la scusa è sempre quella: è più illegale chi lascia uno spazio culturale al degrado, sottraendolo alla comunità, o chi lo occupa per farlo risorgere? Formula efficace in prima istanza, quando un’azione di protesta serve ad accendere i riflettori sul buco nero di un’amministrazione pubblica, aprendo dei canali nuovi; ma che diventa stucchevole dopo tre anni di appropriazione indebita.
La risposta degli “occupanti” – identità generica a cui non corrispondono nomi e ruoli, in perfetta linea con una certa retorica collettivista vecchia di quarantacinque anni – non si è fatta attendere. “Noi e il premier Renzi abbiamo due modelli culturali completamene diversi: da una parte c’è l’idea di sottrarre il Teatro Pergola all’Eti e assegnarlo a una Fondazione classica pubblico-privato, l’idea di Firenze come Disneyland del Rinascimento, dei beni culturali espropriati ai cittadini e dati in pasto a marchi e brand. Dall’altra, quella del Valle, si porta avanti il progetto di una cultura di qualità, per tutti e a costi non alti, rivoluzionando il rapporto di sudditanza tra istituzioni e società civile, immaginando una Fondazione alternativa basata sulla partecipazione, la turnazione delle cariche, la nomina democratica diretta e allargata degli organi di governo, l’equa redistribuzione della ricchezza”.
E ‘te pareva’ che non tiravano fuori la storia della cena targata Ferrari (il brand – incidentalmente anche italiano – più influente al mondo, sinonimo di artigianalità, qualità, genio), con Ponte Vecchio affittato a Luca di Montezemolo per un evento aziendale: tutti a gridare allo scandalo per la brandizzazione della storica location, ma il senso era incassare del denaro per il restauro di alcuni monumenti. E al di là dello specifico caso, quel che conta è il principio: fare gli intransigenti in tempi di crisi nera, con eventi che non sono certo la regola ma l’opportuna eccezione, è da irresponsabili, oltre che da spocchiosi. Del resto, quando non si pagano affitto, utenze, bollette, tasse e contributi si può anche stigmatizzare l’aiuto dei privati. Sulla portata rivoluzionaria dell’operazione Valle, sui risultati ottenuti, sul senso reale delle parole “partecipazione” o “democrazia” ci sarebbe poi da discutere.
Perché, diciamola tutta: l’operazione Teatro Velle Occupato ha fallito. La vittoria non sta nella celebrazione quotidiana di un atto di conquista personale, nell’assenza di una direzione artistica, nell’estromissione delle Istituzioni; la vittoria doveva stare, semmai, nel cambiamento innescato a livello della politica e insieme dell’opinione pubblica. Oggi il Valle sarebbe un teatro libero se chi governa la città avesse ripreso ad occuparsene, con cura e intelligenza. Se si fosse trovata una forma di gestione possibile, un’economia sostenibile, un senso condiviso. Evitando un’ulteriore deresponsabilizzazione delle Istituzioni, elette (e pagate) per occuparsi del bene comune. E invece siamo in presenza di un fortilizio di prepotenza che lo scorso 3 febbraio ha pensato di poter impedire l’ingresso a degli agenti della Digos, arrivati con degli ispettori per dei normali controlli. Niente, porte sbarrate: “L’occupazione è un atto che rivendichiamo ad alta voce“, hanno risposto. Gesto tollerato e rimasto impunito, come se fosse normale, come se chiunque potesse fare la stessa cosa, solo perchè “lo rivendica ad alta voce”.
Una riflessione dunque va fatta: le occupazioni culturali degli Anni Dieci, a differenza di quelle di altri periodi storici, erano nate – intelligentemente – come movimenti di consapevolezza politica e di rinnovamento sociale. Non di nichilismo, non di autismo antagonista. Il punto non erano e non sono gli spazi, ma la cultura degli spazi. I contenuti. Non si tratta allora di impossessarsi di un luogo, facendone la propria Repubblica indipendente che non risponde a legge alcuna, ma di attivare un pensiero intorno a quel luogo. Provando a spezzare una routine fatta di indifferenza e di miopia amministrativa.
Dal 2011 il Teatro Valle, dopo la dismissione dell’Ente Teatrale Italiano che lo aveva in carico, è passato sotto la gestione di Roma Capitale, dietro stesura di una convenzione col Mibac, finalizzata alla valorizzazione, la tutela e la compilazione di un programma di sviluppo culturale. Accordo rinnovatosi tacitamente lo scorso agosto, ma mai concretizzatosi. Nessun piano è stato presentato al Ministero dal Comune di Roma e nessun tavolo è mai stato indetto per ragionare sulle sorti del teatro. Una enorme responsabilità – l’ennesima – dell’amministrazione culturale capitolina. Complice di episodi di degrado, a tutti i livelli.
Helga Marsala
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