CRISTO E PINOCCHIO
Ricordando la Bologna degli anni Novanta mi sembra che hai detto delle cose molto belle. Per parte mia ricordo che a Milano, dove ho vissuto nello stesso periodo di tempo, si viveva una situazione abbastanza simile; ci si trovava molto spesso alle inaugurazioni, eravamo una specie di gruppo eterogeneo e variabile in cui potevi trovare Premiata Ditta, Giulio Ciavoliello, Patrizia Brusarosco, Dimitris Kozaris, Miltos Manetas e tanti altri. Cattelan veniva spesso nella redazione di Flash Art, e noi si orbitava di frequente intorno alla galleria di Luciano Inga-Pin , che era già stata importante anche prima, ma era ancora un luogo propositivo per le mostre dei giovani che faceva in quell’epoca, come la prima personale di Vanessa Beecroft. Il piacevole velo della memoria però non mi impedisce di ricordare anche certi gruppi, Via Lazzaro Palazzi, Via Fiuggi, che proponevano un concettualismo già allora insopportabile, ma mi sembra che nonostante l’aria battagliera e tanta arroganza, per fortuna di quelle tendenze non sia rimasto praticamente niente. A Milano arrivavano anche bolognesi come Maria Grazia Toderi, e poi un bel giorno anche tu sei venuto a Milano a Via Farini.
Sì, ma dobbiamo andare con ordine. Alla mia prima personale alla Neon, nel 1992, ho conosciuto Gianni Romano che, sorpreso di questo mio nuovo lavoro, mi mise in contatto con questa nuova galleria di Ginevra, la Analix Forever Gallery. I Polla erano molto entusiasti del lavoro che stava proponendo Gianni ed erano molto appassionati dei nuovi giovani artisti emergenti in giro per l’Europa e per il mondo. Vennero a Ravenna per conoscermi e per vedere il mio lavoro, poi andai io in Svizzera per Venti Pezzi Fragili, una collettiva curata da Gianni. C’erano artisti molto bravi, e dopo mi proposero di fare una personale nel nuovo spazio della galleria che si era nel frattempo trasferita dalla zona industriale nel centro di Ginevra. Quella fu la mia prima personale internazionale in cui ebbi l’occasione di esporre sculture di grande formato.
Insomma, eri partito con il piede giusto!
A essere sincero ci fu veramente uno strappo. Forse sarebbe stato più logico, per una persona come me che viveva in una piccola città come Ravenna, fare prima alcune mostre in Italia, anche a Milano. Io questa proiezione internazionale l’ho vissuta con molto entusiasmo, però effettivamente, pensandoci oggi, forse fu un’esperienza un po’ prematura.
Forse, paradossalmente, fu una balzo un po’ impaziente all’epoca?
Sì, ero molto giovane e poi mi sentivo padrone del mio lavoro, ma non lo conoscevo ancora abbastanza bene come l’avrei conosciuto qualche anno dopo.
Si potrebbe quasi dire che il lavoro era già maturo, mentre tu non ancora del tutto. Certo è che Gianni Romano a quell’epoca, quando ancora faceva il curatore, aveva un occhio e un fiuto imbattibili, e infatti si era pienamente reso conto del tuo potenziale.
Sono d’accordo. All’epoca di Venti Pezzi Fragili e di Documentario, Gianni aveva veramente le antenne. Mi ricordo che organizzo alla Analix delle mostre veramente molto belle, ma fu Daolio che mi mise in contatto con Via Farini.
A Via Farini, dove ci siamo conosciuti forse per la prima volta, mi ricordo un grosso personaggio sdraiato, come certi monumenti ai cavalieri nelle cattedrali. Ti rivedo davanti a me mentre mi spieghi come di che cosa era fatto, perché onestamente non si capiva.
Feci un’istallazione che si chiamava In silenzio religioso, un guerriero dormiente che teneva una sculturina in pietra scolpita appoggiata sull’addome, che avevo già esposto a Basilea con la galleria Analix.
Mi ricordo che avevi avuto problemi con l’asciugatura del cemento…
Sì. All’inizio degli anni Novanta io ero uno dei pochi artisti che avevano recuperato il cemento armato, questo materiale molto duro, forte, di grande impatto visivo. La mia scelta di utilizzare un materiale di tipo industriale per fare della scultura figurativa era puramente concettuale, mi sembrava un materiale curioso, vergine e duro quindi idoneo per poter raccontare il mio immaginario. Non proponevo una novità assoluta, c’erano stati altri artisti, come ad esempio Henry Moore, che avevano usato il cemento, però all’inizio degli Anni Novanta c’era uno sviluppo nuovo nella scultura con alcuni materiali nuovi come il silicone, molto adatto a rappresentare la figurazione di immaginari iperrealisti alla Cattelan. Io ho preso consapevolmente un’altra direzione, utilizzando materiali ritenuti più “classici” come il gesso, il marmo, la pietra, il legno.
Come il Pinocchio crocifisso…
I Pinocchi che feci in quegli anni furono tre. Il lavoro sui Pinocchi è un lavoro di svolta per il mio percorso espressivo. Decisi di scegliere questo personaggio perché la fiaba era nel mio cuore, era la storia che da piccolo avevo ascoltato più volte. Mi intrigava la possibilità di far diventare Pinocchio una scultura, una specie di mito originario decontestualizzato in opere e disegni che lo ritraevano al di fuori della sua celebre vicenda. Arrivai a questa crocifissione cruenta perché in una maniera un po’ strana volevo creare un contrasto tra il Pinocchio di Collodi, che nella favola viene impiccato, e il mio messaggio rivolto ad indagare problematiche religiose.
Quindi non era un’opera “dissacratoria”, ma al contrario, si potrebbe dire “ri-sacratoria…
Sì, sono d’accordo, era un cortocircuito tra significati ironici e ri-sacratori, per ridonare valore alla sacralità divina attraverso iconografie nuove, per esprimere messaggi attraverso icone potenti. Le opere di quegli anni fanno tutte parte di un mio immaginario “infantile” fatto di pinocchi e puffi utilizzati per riportare attenzione verso il tema religioso. Desideravo mettere al centro dell’atto creativo tematiche di fede, ecco perché non volevo creare immagini dissacratorie .
È pensando a queste tematiche che sei arrivato a recuperare la tecnica del mosaico?
Questa è una storia che ha dell’incredibile. Avevo studiato mosaico all’Istituto d’Arte per cinque anni di fila, poi, non so se per repulsione verso la tecnica, o per incapacità mia di coglierne la forza, l’avevo accantonato quasi completamente. Sono stato quasi dieci anni senza fare un mosaico. Poi mi capitò di avere una cattedra in un istituto professionale, a Ravenna, le cui pareti erano coperte di opere musive, copie da cartoni pittorici, materiale a mosaico da guardare, visionare e su cui poter meditare. L’insegnamento stesso che mi era stato affidato mi spingeva necessariamente ad approfondire tanti argomenti di tecnica musiva che fino ad allora non avevo mai toccato.
In quel preciso momento è scattata una scintilla, un vero amore: mi ero finalmente accorto che il mosaico era uno strumento e che lo potevo far diventare mio. A livello tecnico ero già stato educato, però mi mancava una di chiave di lettura che mi permettesse di poter utilizzare questo linguaggio in modo poetico nuovo. Così, per la personale Atto di preghiera del 1994 alla galleria Analix l’ho ripreso e ho esposto un’opera musiva di grande formato.
Da quei tempi l’amore per questo linguaggio non si è più spento, perché lo trovo veramente uno strumento potente, contemporaneo, in grado di far transitare le immagini che ci passano davanti dalla rete mediatica a un mondo fuori dal tempo.
Questa capacità è divenuta col tempo il tuo marchio di fabbrica.
Io mi sono sempre preoccupato di mantenere un esile filo di collegamento con tutto quello che poteva essere riconducibile alle tradizioni classiche di questo linguaggio, alle regole compositive, tutto quel sapere che sta nascosto dentro il Dna culturale di questo linguaggio. Trovo che oggi molti escano un po’ arbitrariamente da precisi ed impostati schemi classici, senza sapere che queste due strade espressive portano in due direzioni completamente diverse.
I tuoi primi lavori a mosaico riprendevano certe idee alla McLuhan, sul valore “tattile” dello schermo elettronico, per cui le tessere musive di tradizione classica erano impiegate come l’equivalente materiale dei pixel elettronici. Penso per esempio alla serie dedicata a Lara Croft; ma in seguito hai dato una sterzata sempre più personale fino ad arrivare al micromosaico e agli inserti su rivista.
Una delle prime opere fu un micro mosaico una di foto di Michael Jackson sul Resto del Carlino immortalato con occhi sbarrati a esprimere lo smarrimento dopo gli scandali legati alle sue vicende compromettenti portate alla ribalta mediatica. In quel momento mi sono veramente accorto che potevo utilizzare il linguaggio del mosaico in un modo nuovo perché potevo utilizzare questa tecnica antichissima intervenendo sui fatti dell’ultim’ora. Trovavo questa possibilità veramente molto interessante, e anche se di primo acchito il lavoro sulle riviste può sembrare abbastanza immediato e semplice, io non sono credo che lo sia. Man mano che andavo a sviluppare il lavoro, mi accorsi infatti che vi erano altri elementi estetici importanti da considerare oltre il micromosaico, come certe scritte, la grafica… tutto andava a interagire e interferire con il mio lavoro.
Sì, la cosa interessante è che la copertina, il libro, la rivista, tutto quello che su cui tu vai a intervenire, resta perfettamente leggibile e lo fruisci ancora.
Un intervento particolarmente importante per me è una copertina del Venerdi di Repubblica che ritrae il volto di un bambino africano immerso nel fango, da cui ho realizzato nel 2005 l’immagine guida del festival di Ravenna,. Un anno lo stesso tabloid ha pubblicato la stessa copertina con la stessa immagine, come per dire: un anno dopo nulla è cambiato. Questa doppia copertina allora la trovai veramente molto forte, perché mi offriva la possibilità di potermi confrontare sulla stessa immagine un anno dopo, di interrogarmi su questa frase che in realtà diventava un po’ ironica perché in un anno è impossibile che le cose non cambino anche da un punto di vista del mio lavoro, di come potevo guardare, risolvere, rivisitare quell’immagine. Quindi il lavoro non è, come potrebbe apparire, solo di “rifacimento” dell’immagine, è un discorso strettamente collegato alle notizie del mondo in un modo ben preciso, quello che propone continuamente dei repentini cambiamenti.
Direi che va sottolineato proprio questo carattere di sfasatura linguistica; in altre parole, non è soltanto un lavoro di taglio postmoderno appropriazionista, simulazionista, di mimesi dell’esistente: c’è dietro tutta una riflessione sull’universo delle immagini e sul nostro regime scopico.
RITORNO A CASA
Da quando hanno iniziato a circolare le riviste a micromosaico ti hanno regalato una certa visibilità, non credi?
Quello che era azzeccato era il supporto cartaceo, che dà questa possibilità di poter essere modificato, ed è un mezzo di comunicazione di massa che fa sì che il messaggio dell’opera viaggi con la stessa velocità. Anche se trovo che l’aspetto interessante sia che questi intarsi sono una sorta di piccole schegge di storia dentro questi mezzi di comunicazione usa e getta.
Ma quello che mi ha sempre colpito è il fatto che, nonostante questa serie di lavori abbia incontrato anche il consenso del pubblico, tu non ti sei fossilizzato, non ti sei ripetuto, anzi. Hai aperto le tue ricerche poi ancora di più.
Purtroppo ho questo carattere che mi porta sempre a non stare fermo su un’idea e mi spinge ad esplorare, a cercare nuove sfide con me stesso. Sinceramente però questa cosa di avere una riconoscibilità solo con le copertine un po’ mi spaventa, perché penso che il mio lavoro abbia mille sfaccettature diverse. Per questo vorrei dare un po’ più risalto a opere che in realtà sono poco conosciute, alcune mai esposte, come una serie di quadri a olio che sto portando avanti da tanti anni, o piccole sculture fatte con materiali organici e non, esposte in rarissime occasioni. Penso che nel mio lavoro sia divenuto importante mostrare oggi il filo conduttore che mi porta a utilizzare qualsiasi tecnica per uno scopo sempre diverso.
Vuoi dire che il micromosaico è un linguaggio tra gli altri?
Il micromosaico alla fine è uno strumento né più e né meno del gesso per le statue, o della carta da rotocalco per comporre collage. La tecnica in alcuni lavori può divenire un elemento virtuosistico vincente, ma, per come le utilizzo, io metto tutte le tecniche sullo stesso piano.
Certo se uno batte su Google la parola mosaico e fa una ricerca per immagini, c’è da mettersi le mani nei capelli, ti viene subito la voglia di allontanarsi da questo linguaggio, perché al novantanove percento emerge un artigianato di basso livello.
Il mosaico è un linguaggio così sputtanato da un punto di vista artistico che usarlo è veramente difficile, persino pericoloso; per un artista significa prendersi un rischio.
A questo proposito, tu hai sempre lavorato di mano tua, tanto è vero che qualche volta anche noi amici ti abbiamo rimproverato di non avere un’assistente, di voler fare tutto da solo, mentre molti artisti anche della tua generazione si fanno produrre le opere da artigiani.
Certo, hanno anche dieci assistenti!
Già, ma è frutto di una strana evoluzione: all’epoca del Concettuale un artista non si faceva produrre un bel niente da nessuno, perché quello che cercava era la smaterializzazione dell’oggetto d’arte. Però, dagli anni Novanta in avanti, anche chi aveva un elemento concettuale molto forte nell’opera poi alla fine ha deciso di tradurlo non solo in elementi fragili o transitori, ma in qualche cosa di permanente. Persino Cattelan ha deciso di tornare ai marmi monumentali, anche se, non è un mistero per nessuno, non li ha fatti lui.
Perché non è uno scultore! [Ride]
Ma ormai, quasi nessun artista è più uno scultore, e forse neanche un pittore, un videomaker. L’elenco delle abilità “manuali” demandate ad altri sarebbe lungo.
È un problema delicato. Ci sono secondo me degli elementi nel lavoro che si stanno perdendo, ma non da adesso, già da molti anni. Sono dei valori che a mio avviso sono innegoziabili per l’artista: perdere il senso del colore, o perdere il senso della forma per un’artista è un po’ come perdere l’uso delle mani. È vero che può far fare il lavoro ad altri, utilizzare le botteghe , però il problema grave di crisi che stanno vivendo le realtà dei mestieri (le botteghe di Faenza, di Ravenna, di Murano, di Carrara) è che quest’arte concettuale che viene trasferita nei materiali ha nel tempo perso un anello importante di congiunzione: la regia dell’artista che dava delle indicazioni tecnicamente pertinenti, non delegava totalmente il lavoro a queste botteghe .
Recentemente ho avuto modo di visitare un importante atelier che produce i lavori scultorei di Vanessa Beecroft , Jan Fabre, o anche di Abdel Adessamed addirittura in avorio, o riducendo il marmo a spessori millimetrici. L’idea di regia che tu hai citato adesso mi piace molto, però come tu sai in un film ci sono i crediti finali, c’è il direttore della fotografia, c’e il direttore del montaggio, c’è il direttore del casting, per non parlare di soggetto e sceneggiatura – e cioè, mi sembra che nessun regista possa firmare da solo un film che non ha fatto lui da solo.
A Ravenna c’è stata un’operazione fatta negli anni Cinquanta che ha visto coinvolti i maestri mosaicisti nella realizzazione da cartoni di artisti allora famosi del calibro di Chagall, Picasso, ecc., e la domanda era proprio questa: l’interprete di questi cartoni che peso ha? Però quello che io volevo dirti è l’esatto contrario: non è secondo me un problema legato agli artigiani, è un problema legato agli artisti. Il problema è che oggi è diventato difficile saper distinguere le qualità tecniche, non si capisce più la qualità pittorica, non si capisce più la qualità scultorea, come ho detto prima stiamo perdendo il senso della forma, il senso del colore e della superficie. Le opere diventano solamente tutte immagini da vedere, che viaggiano nell’etere alla velocità della luce, immagini che devono lanciare dei messaggi. Però paradossalmente, utilizzando questo metro di valutazione, i grandi pittori visti in rete perdono totalmente la loro qualità pittorica, che viene azzerata, mentre i pittori che hanno una qualità quasi nulla ci guadagnano tantissimo, perché il mezzo cancella totalmente qualsiasi valore riconducibile alla qualità poetica. È difficile trovare un rimedio a questa situazione. Tornando al mosaico, chi si innamora di questo linguaggio comunque deve vedere e toccare con mano questi mirabili capolavori nei luoghi storici in cui è possibile vederli, come Ravenna, Pompei, Piazza Armerina…
Se questo è vero, allora noi, in quanto italiani, avremmo veramente ancora una chance “poetica” in più, a livello internazionale.
Per tornare a Pozzati, mi ricordo che nelle sue lezioni poneva l’attenzione proprio su questo. “L’italiano”, diceva, “ha una storia che lo schiaccia, perché la nostra tradizione è così pesante che ti comprime, ti sovrasta; però, se riesci a sopravvivere alla storia, poi hai un’energia molto più forte perché sei parte di un mondo culturalmente ricchissimo”. Noi siamo veramente ancora al centro di un universo che negli ultimi duemila anni di storia ha creato gran parte del patrimonio dell’intero pianeta.
Marco Senaldi
Rimini // fino al 9 febbraio 2014
Leonardo Pivi – Terra bruciata
a cura di Marco Senaldi
FAR – FABBRICA ARTE RIMINI
Piazza Cavour
GALLERIA D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA – VILLA FRANCESCHI
Via Gorizia 4
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http://www.riccioneperlacultura.it/
Riccione // fino al 9 febbraio 2014
Leonardo Pivi – Terra bruciata
a cura di Marco Senaldi
VILLA MUSSOLINI
Via Milano 31
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