Biennale di Marrakech. Un’edizione di passaggio
“Where Are We Now?”. Così, dopo le critiche, la quinta edizione della Biennale di Marrakech sembra essere alla ricerca di stessa, più che di ciò che le sta intorno. Oscillando tra post-colonialsimo e voglia di essere integrata nella città. I progetti più giovani sono il fiore all’occhiello di quest’anno e fanno ben sperare per le prossime edizioni.
La scena si svolge nel giardino del Riad El Fenn, hotel e boutique nel cuore della Medina di Marrakech, che in occasione della Biennale si trasforma in festaiolo e mondano quartier generale di chi si trova in città in nome dell’arte. Verso le undici di sera la folla, che chiacchiera allegramente imbonita da bicchieri di vino a tre euro l’uno, viene avvicinata da altissime ragazze bionde che invitano a stiparsi accanto alla piscina e a indossare i propri occhiali da sole, perché sta per iniziare la performance Half Hotel del lituano Robertas Narkusis. L’artista, un tizio pelato in abito con vistosi occhiali da sole con inserti color oro, arringa la folla con un microfono mentre alcuni ragazzi di una fonderia marocchina, ai suoi comandi, forgiano da una lastra di metallo la forma dell’Africa, da cui manca proprio il Marocco, e tra urla di gioia degli spettatori, a lavoro finito, miliardi di selfie e flash vari, gettano in piscina la sagoma.
In questo momento, dopo un conseguente smarrimento, ci si rende conto dell’immenso divario che corre tra la Biennale di Marrakech e la città stessa, una delle più povere del Marocco. Performance come quelle di Narkusis enfatizzano una dinamica post-post-colonialista, East vs West, che l’organizzazione della biennale sembra far fatica a superare.
La Marrakech Biennale, alla sua quinta edizione, è stata fondata nel 2005 da Vanessa Branson (sorella del patron della Virgin, Richard Branson) e non è nuova a critiche di questo genere. Negli anni si è formata affiacando a una mostra prinicpale un programma parallelo che spazia dalla letteratura al cinema alle arti performative, unendo le forze con le gallerie e le istituzioni locali. Le critiche degli anni scorsi sono culminate nel fiasco della quarta edizione, quando i due curatori Carson Cham e Naddim Samman hanno deciso di vestirsi con costumi della tradizione locale per la fotografia del comunicato stampa ufficiale, dove però annunciavano che solo tre dei trentasette artisti partecipanti erano marocchini e solo una manciata erano originari del Nord Africa o del Medio Oriente. Un po’ poco per una biennale che si pone come obiettivo quello di relazionarsi con il territorio in cui opera ed esplorare lo stato dell’arte contemporanea nella cosidetta MENSA (Middle East and North Africa) Region.
Presa coscienza delle critiche, specie quelle che la accusavano di comunicare solo con un’udience di stranieri per lo più occidentali, quest’anno la biennale, che per la prima volta opera sotto il patronato del Re Mohammed, si è impeganata per cercare di tener fede alla propria missione. Tra le scelte piu significative, quella di invitare curatori con una vasta conoscenza della zona, come Hicham Khaldi per le arti visive e Khaled Tamer per le arti performative, e quella di utilizzare per le mostre principali infrastrutture già presenti in città, come la Banca Al Maghreb, oppure musei locali come il Dar Si Said, per affiancare il contemporaneo alla tradizione.
Gli artisti selezionati da Hicham Khadi sono un buon mix, tutti provenienti da Paesi diversi e molti dalla Mensa Region, e parecchie delle opere prese singolarmente sono interessanti: il problema sta nella scelta del tema del biennale, la domanda Where are we now? e come rispondervi. Mentre si passeggia per le mostre officiali ci si rende conto che la domanda, più che essere rivolta agli artisti in modo da cristallizare dove si trova l’arte in questo momento, sembra una domanda che la biennale stessa si pone. L’assenza di un supporto critico teorico che affianchi il tema si trasla in un’assenza di dialogo sia tra le opere stesse che tra le opere e il contesto in cui si trovano: il risultato, se ci si mette anche la mancanza di personale informato in loco e di targhette informative, è di totale smarrimento per lo spettatore, che finisce col chiedersi where am I now?
Le opere più interessanti del programma ufficiale si trovano all’interno della Bank Al Maghreb, che si trova di fronte all’incantevole e caotica piazza Jemaa El Fnaa. Qui è possibile vedere V12 Laraki del belga Eric Van Hoeve: l’artista ha ricostruito il motore V12 della Mercedes usato da Abdeslam Laraki, proprietario dell’omonima casa automoblisitica marocchina, quando ha creato la Laraki Fulgura, la prima macchina di lusso locale. I pezzi del motore, situato su un piedistallo al centro dell’edificio, sono stati creati da artigiani marocchini: l’artista ha cosi relaizzato il sogno di Laraki di realizzare il motore in Marocco, mentre all’epoca aveva dovuto farselo spedire dalla Germania. Qui ci sono anche i lavori di giovani pittori come Hiba Khamlichi, che ha realizzato la propria opera durante una live painting performance in piazza, e Zaynab Khamlichi, che ha presentato un dipinto raffigurante il Re del Marocco dal titolo The king inspires me.
Il meglio di questa biennale si trova però al di fuori dalle mura delle mostre ufficiali e negli eventi del programma parallelo, dov’è possibile vedere lavori criticamente sostanziosi di giovani artisti europei e marocchini, che riescono a creare un legame con il luogo dove stanno operando. Tra le migliori, la mostra Dar Bab a L’Bassa, edifico art déco abbandonato a Guelize (nella parte nuova della città) del Mint Collective, fondato da tre artisti inglesi con base a Londra (Jean Feline, Hermione O’Hea e Florence Devereux), che ha creato un programma di residenze per artisti a Marrakech, dimostrando come si puo avere un approccio contemporaneo al concetto di artist in residence in un Paese straniero. Da segnalare le opere di Alix Marie, artista francese che studia al Royal College of Art, la cui ricerca si focalizza sulla carne esposta nei mercati di Marrakech, da cui ha tratto stampe utilizzate in vari modi (come tenda, o arrotolate attorno a tubi di alluminio), e l’installazione di Edouard Burgeat, che riflette sull’identità attraverso l’uso di materiali locali. E ancora, Panthera Leo Leo In Vitro (Barbary Lion In Glass), statuette raffiguranti leoni berberi, specie in estinzione, dell’artista inglese Rowan Markson. Eccezionale anche il progetto di Anna Raimondo e Younes Bab-Ali, here.now.where., installazioni sonore all’interno dei taxi di Marrakech.
Sono progetti come questi, giovani e propositivi, che davvero tengono fede all’obiettivo principale della biennale: integrarsi nella città.
Victoria Genzini
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