La Grande Bellezza. Il grande luogo comune
Plastico, fittizio, irreale. Le colpe più grandi di Paolo Sorrentino sono di aver prodotto un film-spot, con molte decorazioni, molti ghirigori cinematografici, ma il tutto basato su una struttura fragile e una sceneggiatura povera. Altro che Federico Fellini… Chiudiamo così (ma non è detta l’ultima parola) il nostro ciclo di opinioni sul film italiano che ha vinto l’Oscar.
La grande bellezza di Paolo Sorrentino è un gigantesco luogo comune. La pellicola, osannata oltre oceano come la nuova Dolce Vita felliniana (niente di più falso), è sì un capolavoro stilistico – anche se non mancano esagerazioni, come i troppi dolly – ma debole di struttura e contenuti. Paolo Sorrentino ha voluto raccontare la decadenza di Roma, dei suoi abitanti e, più in generale, di una certa Italia; peccato che il fine non sia al pari del mezzo: troppi luoghi comuni, troppe situazioni inventate (come il chirurgo plastico che somministra botulino in una specie di boudoir), troppe domande che non trovano risposta (come fa un ex scrittore che lavora come giornalista a permettersi una casa con attico fronte Colosseo?) e, soprattutto, la plasticità e la fittezza di certi personaggi (i conti in affitto, la donna ricca che osanna i suoi impegni socio-culturali, il cardinale che parla solo di ricette e la spogliarellista malata di un male sconosciuto) e di certe scene (nonostante la fotografia di Luca Bigazzi) che risultano troppo cartoline, troppo elaborate. Per di più, quello che si vuol far passare per capolavoro non è all’altezza di nessuno dei suoi film precedenti, giusto per citarne due: L’amico di Famiglia (la pellicola più riuscita) e Le conseguenze dell’amore.
La Grande Bellezza racconta male quello che dovrebbe essere la grande bruttezza, perché invece di evidenziare la decadenza come fattore sociale-generale preferisce (in perfetto stile Sorrentino) concentrarsi sui singoli personaggi (focalizzandosi troppo sulla loro personale decadenza) che, però, alla fine, non portano da nessuna parte; esattamente come i trenini che partono durante le (improbabili) feste sulla terrazza di Jep Gambardella (Toni Servillo).
Si salvano le scene poste in forte contrasto, le uniche che risaltano il concetto di società allo sfacelo che vive imperterrita nella maestosità di Roma; sono quei palleggi di montaggio veloce: da una panoramica su Roma a una sniffata di cocaina, dalle suore che giocano con i bambini alle feste per arrampicatori sociali. Solo in questo caso, il fine di Sorrentino è raggiunto. Per il resto, il film è una sequela d’immagini inutili, che non ricordano per niente il genio di Fellini né l’estro di Scorsese. I personaggi del film, per di più, ruotano attorno alla figura di Jep Gambardella che dovrebbe essere chi? L’italiano un attimo più medio berlusconiano? E sì, perché di felliniano non c’è nulla nella Roma (ricostruita) da Sorrentino, ma molto di berlusconiano. Da notare anche che il film, per raccontare la Roma godereccia, si è ispirato ai Cafonal del duo Pizzi-D’Agostino, eppure, dopo aver visto la pellicola, anche l’ex fotografo di Dagospia l’ha bollato come troppo debole: “Doveva colpire più duro”, disse Pizzi.
E non ci bastano le parole di Sorrentino, quando dice che non voleva dare una visione realistica delle cose, ma una pura versione personale: non è così, non può essere. È una via di fuga semplice: un film, se vuole indagare certi aspetti della vita e della società, non può lasciarsi andare a fantasie personali (anche totalmente strampalate, come i fenicotteri che riposano sul terrazzo di Jep) o a digressioni surrealistiche. Sì, è vero, Fellini l’ha fatto: ma Fellini è Fellini e Sorrentino non ha come sceneggiatore Ennio Flaiano. La differenza è abissale. Ecco che così, imitando un po’ quello e questo, cercando la bellezza, rifuggendo la bruttezza, inseguendo personaggi a metà, Sorrentino ha creato un contenitore molto sfarzoso e curato, al cui interno c’è pochissimo.
Provate a immaginare un film di Ken Loach – noto per i suoi temi sociali – che si lasci andare a piani sequenza infiniti e carrellate aeree a discapito di una narrazione (o di una sceneggiatura) che vi abbia in pugno dall’inizio alla fine. Sorrentino ne ha le capacità, ma non ha volto sfruttarle. Anche il talento di Toni Servillo è utile fino a un certo punto, perché poi sembra perdersi nel mare selle situazioni, mentre, forse, l’unico che resta in sella è Carlo Verdone (che interpreta Romano, caro amico di Jep). E l’Oscar al Miglior Film Straniero (l’ultimo quindici anni fa con La Vita è Bella di Benigni) è la conferma di quanto appena detto: gli americani non hanno premiato il film per la sua reale bellezza o genialità, ma perché hanno un’idea stereotipata dell’Italia (che La grande bellezza riporta benissimo) e perché sono innamorati di Fellini (che La grande bellezza cerca di riportare). Se poi aggiungiamo che i diretti concorrenti alla statuetta al miglior film in lingua non inglese presentavano temi già visti in America (e già premiati), il quadro è ancora più chiaro.
A parte ciò, Paolo Sorrentino resta il miglior regista italiano della sua generazione (con Matteo Garrone) e guardare i suoi vecchi lavori resterà sempre un piacere. Due sole richieste: basta con i romanzi e basta con i film ispirati a registi che, per nostra sfortuna, non torneranno mai più.
Paolo Marella
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