La Grande Bellezza. Nel mezzo del naufragio
Troppo felliniano? Troppo poco autentico? Troppo visionario, enfatico, di maniera? Probabilmente sì. Ma è questa l’Italia che il film di Paolo Sorrentino vuole raccontare. Un Paese che galleggia tra le proprie macerie, senza precipitare né redimersi. Fronteggiando la morte, con leggerezza.
La Grande Bellezza è un film moralista, irrisolto, manierista, decadente, teatrale, citazionista, disperato. E dunque assolutamente contemporaneo. Un film che pur non volendo occuparsi dell'”altrove”, finisce per condurre la realtà incontro alla finzione. Potenzialmente un’ambiguità vincente. Se solo ci si fosse spinti un po’ più in là: ma è il limite di non essere Fellini, volendo attualizzare le migliori pagine felliniane.
L’accusa di aver ripreso il maestro, però, è tra le più deboli. In un tempo presente, che il senso del presente lo ha smarrito, lo sguardo all’indietro è diventato necessità, ultima chance. Non semplicemente citando, ma recuperando sintassi, motivazioni e slanci di chi aveva ancora qualcosa da raccontare. È come cercare una risposta in mezzo al niente, tornando nella casa del padre. Ed è chiaro che il risultato, nei casi migliori, non sarà mai una copia. Anzi. Sarà un rovesciamento, una resa, lo stridore tra la crisi e la celebrazione.
La Dolce Vita raccontava il brivido della superficie, l’euforia mondana nutrita di speranze, opulenze, allegre vanità: l’ingresso febbrile nell’era del benessere, dentro cui covava il presagio dell’amarezza, il tormento sottile di una condizione esistenziale nuova, inevitabile, come la più subdola delle vertigini. Era un altro tempo, un’altra utopia borghese in corsa. La Grande Bellezza ribalta quella stessa superficie e la trasforma in un incubo fosco, un disfacimento volgare, psichedelico, quasi nichilista. Quasi. Perché l’umanità sguaiata e immiserita, tratteggiata con pittoresco compiacimento da Paolo Sorrentino, esposta a una degenerazione di maniera, è un’umanità ferma. A un passo dal baratro e al cospetto della salvezza. Laddove salvarsi significa tornare a vedere Roma: la sua storia gloriosa, il suo imperativo scenografico, la sua memoria monumentale, il suo paesaggio sempre presente, troppo presente. Iconico. Come un’immaginetta sacra. E anche in questo caso, la salvezza, non è altro che fiction.
“Le vedi queste persone? Questa fauna? Questa è la mia vita. E non è niente“. La voce roca di Jep Gambardella, scrittore condannato alla perdita della scrittura, divorato dalla mondanità, accarezza con parole taglienti il pensiero della fine. Per tutta la durata del racconto. La Grande Bellezza è allora, innanzitutto, un film pieno di morte. E di stanchezza. Con tutta l’inutilità coreografica di un continuo trastullarsi nella tragedia, senza soccomberne, ma senza redimersi. Mentre sprazzi di luce fungono, qui e là, da nostalgico richiamo.
Un film magari cucito addosso alla candidatura agli Oscar, nel tripudio di cliché e di formule note, persino ruffiane. Ma anche un film cucito addosso all’Italia di adesso. Che vive di conflitti, di deterioramenti: splendore e degrado, ossessione della fuga e bisogno di radicamento, deriva etica ed esaltazione estetica, snobismo e populismo, saturazione e vuoto spinto.
Un film che ha giocato alcune carte eccellenti. Fotografia straordinaria, colonna sonora perfetta, tra aulico e profano, testi efficaci e un cast di livello. Con Sabrina Ferilli e Carlo Verdone a regalare una buona prova di intensità e genuinità tutte italiane, e un Toni Servillo che si conferma genio della scena, figura letteraria dalla personalità definita: una maniera d’essere di cui ogni suo personaggio si impregna, film dopo film, modulando le diverse miscele d’umanità e di cinismo, di fragilità e onnipotenza, di rigore e disincanto. “Finisce sempre così, con la morte, prima però c’è stata la vita, nascosta sotto i bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura., gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”. Monologo esemplare, che in chiusura affida allo sguardo disilluso di Jep, il senso dell’intera opera, la sua mestizia, la sua invocazione di pietà.
Non è un capolavoro La Grande Bellezza. Forse è mancato il salto definitivo, la verità poetica, il sentimento universale delle cose, una radicalità tesa oltre l’artificio. Troppo ambizioso, troppo costruito. Ma anche questo è in linea col milieu storico narrato. Un’epoca non radicale, di sopravvivenza, vanità e inconsistenza, di attesa intorpidita, di gusto dell’effimero, di accettazione dello sbando. Fuori dal tormento vero.
Non un capolavoro, ma comunque un film che ha un suo peso. Fattosi carico del più arduo degli scopi: La Grande Bellezza ha provato, con l’aiuto di una fine sceneggiatura e di alcune valide intuizioni visive, a tratteggiare lo spirito del tempo, passando dai vizi, i costumi, le ossessioni e le debolezze che guarniscono la caduta del presente. Un film talmente presuntuoso, da diventare autentico nello sforzo di narrare l’inautenticità. Riuscendo ad incarnare l’incubo mortifero che ci portiamo dentro, nel mezzo del naufragio.
Ed è per questo che ha fatto discutere le folle. Che poi è il successo di ogni opera d’arte che ambisca a essere specchio dello spettatore. Toccare il nervo scoperto di un’epoca cristallizzata nella crisi era un rischio: il massacro conseguente, così come l’entusiasmo, fanno parte del gioco. Proprio come la statuetta americana: un tributo giusto a un film imperfetto, che esplorando la miseria e l’imperfezione umana si è trovato un posto nella storia.
Helga Marsala
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