La sedia elettrica dell’assessore. Lettera aperta a Flavia Barca
Una lettera aperta sul passato prossimo, sul presente indicativo e sul futuro condizionale del Macro. Scritta dall’artista e critico Gian Maria Tosatti. E ci auguriamo che l’assessore al Comune di Roma, Flavia Barca, non tanto risponda, piuttosto si attivi.
A vederla sbagliare tutte le mosse vien da pensare che la coerenza non sia, per forza, un valore. Si parla dell’assessore Flavia Barca, ascesa al soglio culturale romano priva di quei meriti e di quelle medaglie conquistate sul campo che si pretenderebbero da chi ambisce a gestire il più vasto patrimonio culturale concentrato in una sola città del pianeta Terra. La responsabilità della nomina, invero, sarebbe del sindaco Marino che, non avendo visione, si è fatto indirizzare, alla vecchia maniera, dagli equilibri di maggioranza (salvo poi ritrovarseli contro). Tuttavia, farebbe piacere talvolta ascoltare un “domine non sum dignus” da parte di chi avrebbe più la ragionevolezza che l’umiltà di non assumersi compiti riguardo ai quali non tarderà a dimostrarsi inadeguato.
Sarebbe stato fin troppo duro se questo mio commento fosse giunto all’indomani della nomina, ma dopo circa nove mesi di paralisi dell’amministrazione su tutto ciò che attiene alle arti, ho la coscienza a posto nell’esprimere, senza sconti, la mia opinione di tecnico.
Il mio, in realtà, non vuol essere un attacco, ma un contributo. All’assessore Barca consiglio, infatti, di cuore, di fare quel che in questi mesi non ha avuto la sensibilità di fare, ossia di uscire dal proprio ufficio e andare a conoscere approfonditamente tutte le realtà culturali buone e cattive, virtuose o parassitarie che compongono la complessa cosmologia della cultura romana. Facendolo, forse, capirà qual è la strada per superare un immobilismo che in tempi di crisi è doppiamente colpevole sia sul piano economico che politico.
La ragione che oggi mi porta a scrivere nel merito di questo tema, dopo aver disertato il dibattito culturale della mia città per mesi, è stata la lettura di un’intervista, apparsa sul Corriere della Sera, proprio all’assessore Barca, in cui si parla di un ruolo importante di Enel nella futura gestione del Macro.
Se, infatti, una pecca c’è stata nella gestione del Macro in tutti questi anni, è stata proprio l’eccessiva interferenza di soggetti privati (gallerie o aziende), e dei loro interessi, nella programmazione del museo. Una interferenza che, in virtù di un contributo economico, finiva per essere libera da ogni vincolo scientifico nella scelta delle opere e dei progetti, arrivando a risultati grotteschi, come quello di scambiare un museo d’arte contemporanea per un lunapark. Finché non marcirà, il Big Bamboo continuerà a gridare vendetta a quel cielo che sembra trafiggere ogni giorno con le sue canne al vento. Come anche i tappetoni elastici attualmente montati nel cortile, che avrebbero meglio figurato al Luneur che al Macro. E quando è andata meglio, invece che in una giostra, l’Enel ha trasformato il Macro in un giardino botanico, come fu per l’installazione delle farfalle di qualche anno fa. Inutile dire che se si volevano portare le farfalle al Macro, sarebbe bastato fare quel che fece Gagosian Roma con Damien Hirst, una piccola mostra che allora batté il museo 10 a 0.
In ogni modo, il problema è molto semplice ed è bene che lo si dichiari: a Enel, oltre all’arte contemporanea, verso cui ha mostrato in questi anni un lodevole interesse, piacciono anche molto le giostre e i parchi divertimenti. Bene, direte voi, l’importante è che non si faccia confusione con le due cose. Se l’intento ludico piace, abbia l’amministrazione la bontà di dare all’ex Ente Nazionale per l’Energia Elettrica la gestione del vecchio lunapark dell’Eur, non del Macro.
Un museo d’arte contemporanea è un’altra cosa. È una infrastruttura strategica per la civiltà di un popolo, non un luogo di svago. Lo si lasci in povertà piuttosto che agghindarlo con ridicole baracconate. Lo si lasci nella povertà in cui l’arte non ha mai avuto difficoltà di fiorire, una povertà dignitosa che esalta l’intelligenza e la creatività.
Esempi non ne mancano proprio a Roma. Mi verrebbe da citare il Teatro Valle, che però, pur capace di una programmazione notevole, è reo di non aver ancora mai proposto un convincente piano di gestione economica che possa mettere a tacere le critiche strumentali, superando nei fatti e non solo nelle intenzioni la fase dell’occupazione. Ma ancor più calzante è l’esempio del MAAM, citato qualche giorno fa con le stesse intenzioni da Giuseppe Gallo in una lettera scritta a La Repubblica. Stiamo parlando di un museo creato senza un euro, solo con la passione e la serietà di Giorgio de Finis e con la collaborazione di tutta la scena artistica romana. Un museo senza soldi ma con molte idee e soprattutto con una grande consapevolezza di quale debba essere oggi il rapporto fra arte e società. La cultura come strumento reale di superamento dei conflitti che quotidianamente dilaniano il tessuto civile di una metropoli cresciuta male come Roma, è stata la bandiera di questa iniziativa finita addirittura sul New York Times.
Di fatto il MAAM è già il museo d’arte contemporanea della città. Se non altro perché è l’unico museo che vive nella contemporaneità, divenendo elemento dialettico e altamente politico, che trasforma e migliora, che generà comunità e dialogo non solo tra chi l’arte già la apprezza o la fa, ma soprattutto tra coloro a cui l’arte può realmente aprire mondi. Ecco perché al MAAM nessuno dice mai di no, me compreso, anche se non ci sono soldi.
Se l’assessore (alla cultura, ribadisco) avesse, nella sua necessità di conoscenza e monitoraggio, seguito l’esempio di Pasolini e avesse girato “per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone” in cerca delle energie già attive nella sua città, e se fosse passata magari anche per la Prenestina, dove si trova il MAAM, forse le sarebbe venuto in mente di portare quell’esperienza periferica (che però sta girando il mondo) nel cuore stesso delle istituzioni culturali, per cambiarle, per svecchiarle, per riattivarle. Ammetto di aver augurato alla mia città di avere Giorgio de Finis alla direzione del Macro. E penso che, se l’assessore avesse avuto un po’ di intelligenza politica, avrebbe capito che quella sarebbe stata una mossa capace di farle stringere un patto con la scena culturale romana, dando sostegno alle attività migliori di un tessuto culturale che comunque continua a evolversi con o senza la benevolenza delle istituzioni. Sarebbe stato certo un patto temporaneo, in attesa che il museo diventi una fondazione autonoma capace di darsi una governance e di trovare un direttore tramite un vero concorso internazionale. Il patto, invece, l’assessore pare abbia premura di stringerlo con Enel, facendogli trasformare il Macro in quello che rischia di diventare un museo aziendale. Una mossa coerente, come si diceva in apertura, con quanto fin qui si è avuto modo di vedere, ma una mossa radicalmente sbagliata.
Non si pensi a chi scrive come a qualcuno contrario alla presenza dei privati nella gestione delle risorse pubbliche. Ma si badi bene che è essenziale non rovesciare l’ordine dei valori se si vuol operare con profitto. Non è la presenza di sponsor a decidere la prosperità di un museo. È la qualità della proposta artistica a portare prestigio all’istituzione ed è a seguito di tale prestigio culturale che si generano rapporti solidi di fiducia con sponsor e donatori. Se c’è una progettualità di qualità, d’eccellenza e, diciamolo pure, d’avanguardia (che in un museo d’arte contemporanea non guasta), allora Enel – che è un’azienda fatta di teste pensanti – avrà tutto l’interesse a partecipare comunque, a dare il suo contributo in termini economici, avendone in cambio la necessaria visibilità. E così sarebbe anche per i collezionisti, che potrebbero impreziosire con prestiti e donazioni una collezione che attualmente non è degna nemmeno di un museo di provincia. Ma ragionare all’inverso, pensare prima agli sponsor e poi (di conseguenza!) ai progetti rivela una condotta ingenua, miope, che nessuna comunità culturale potrà mai appoggiare.
L’assessore può certamente fare il suo Macro a dispetto della città come ha fatto fin qui, trasformandolo in un museo senza arte e senza artisti. L’arte continuerà a farsi altrove. Non è mai stato un problema. Ma quando un amministratore viene “mollato” dalla sua comunità di riferimento, qualcuno vuol forse dirmi in virtù di cosa quella comunità dovrebbe continuare a pagargli lo stipendio? Glielo paghi Enel.
Gian Maria Tosatti
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