La Sputacchiera #0. Ai Weiwei e la distruzione dell’urna Han
Un uomo distrugge un vaso Han che Ai Weiwei, a sua volta, aveva imbrattato, rivendicando il gesto come artistico. Chi è il vero vandalo? Inauguriamo così una nuova rubrica curata da Vittorio Parisi. Per dare filo da torcere a certi “mostri sacri” del contemporaneo, ma soprattutto ai loro difensori più entusiasti. Spesso più realisti del re.
“Hai letto? Pochi giorni fa a Miami un folle ha sfasciato un vaso da un milione di dollari”.
“Oddio! E che vaso era?”.
“Sai di quel cinese, come si chiama?, Ai Weiwei”.
“Ahhh, ma in realtà volevo sapere chi fosse l’artista, non il pazzo. Per giunta è una storia vecchia. Quel vaso Han l’ha mandato in frantumi più di quindici anni fa. Uno scempio senza tempo, in ogni caso”.
“Sarà, ma ti dico che questo è un fatto nuovo, e Ai Weiwei stavolta è la vittima”.
16 febbraio, Perez Museum, Miami. Un artista dominicano di nome Maximo Caminero si è avvicinato, con gran nonchalance, alla pedana su cui era disposto un nutrito mucchietto di Colored Vases, i celebri vasi della dinastia Han – due millenni di storia sul groppone, pressappoco – che l’artistar dissidente cinese Ai Weiwei ha, in svariate occasioni, letteralmente immersi in latte di vernice colorata, con l’intento di tramutarle in opere d’arte contemporanea engagé. Caminero ha quindi afferrato a due mani uno di questi struggenti capolavori e, tra l’orrore degli astanti e i sudori freddi del personale di guardia, l’ha lasciato rovinare al suolo. Della deflagrazione e del repentino sparpagliarsi di frantumi sul pavimento del museo ci si può fare un’idea grazie al video provvidenzialmente girato da un visitatore – o forse un partner in crime – e ormai patrimonio virale del web.
Sul Guardian, Jonathan Jones si è chiesto: siamo sicuri che il vandalo sia Caminero e non Ai Weiwei? Malgrado la tentazione sia enorme, la domanda non è di quelle che si possono liquidare con una risposta fulminea. Porta presso di sé, difatti, una ricca serie di episodi analoghi, e non solo recenti: il topos qui disvelato non ha età, ed è quello della distruzione del passato in favore del nuovo. Di esempi, pratici e teorici, è disseminata la storia. Per citarne due: dalla cupola del Pantheon depredata da Papa Urbano VIII, che ne fece prendere i bronzi per forgiare il Baldacchino di San Pietro, opera di Gian Lorenzo Bernini, al marinettiano appello a distruggere musei e biblioteche, nel primo Manifesto del Futurismo (1909).
L’arte degli ultimi decenni si è accodata, a modo suo: nel 1995 Ai Weiwei ha – proprio come Caminero – distrutto un’urna millenaria facendosi immortalare fotograficamente (Dropping the Urn); nel 2003 i Fratelli Chapman acquistarono un’edizione autentica – e in perfetto stato di conservazione – di acqueforti dalla serie Los desastres de la guerra di Francisco Goya per dipingerci sopra teste di clown; e ancora, lo scorso novembre Francesco Vezzoli ha letteralmente smontato un’intera chiesetta calabrese dell’Ottocento per spedirla a New York in occasione di uno show al MoMA PS1. Forse per intercessione salvifica della Madonna del Carmine (cui la chiesa è dedicata), quest’ultima barbarie è stata scongiurata e Vezzoli il lanzichenecco denunciato.
Chiusa questa disamina di aneddoti agghiaccianti, ci si può chiedere se davvero non ci sia differenza tra saccheggiare il Pantheon per realizzare il Baldacchino di San Pietro e imbrattare un vaso Han per consegnare all’eternità Colored Vases. Mi limiterò a marcare la voragine che divide le due cose. Entrambi, qualcuno può aver l’ardimento di osservare, hanno preso un reperto (d’interesse artistico, storico e antropologico) e l’hanno modificato, con l’obiettivo di trasformarlo in un oggetto nuovo, investito di un nuovo valore culturale. Entrambi gli oggetti, dunque, hanno indiscutibilmente un valore culturale. L’operazione aiweiweiana appare, infatti, da subito come l’esatto opposto di quella duchampiana del 1917. In altre parole: dalla trasformazione del cesso in opera d’arte (Fountain) si è giunti alla trasformazione dell’opera d’arte in cesso. Malgrado chi scrive riesca a trovare un senso per la prima – limitatamente al fatto che ciò accadesse cent’anni fa –è invece assai difficile trovarlo per la seconda. Di contro, quest’ultima ha eccitato la libido teoretica degli apologeti del “gesto provocatorio come opera d’arte”, e di tutto quell’apparato di critici che, evidentemente, non ne hanno ancora abbastanza di provocazioni che si ripetono, nella stessa maniera, da ormai un secolo.
Possedere un valore culturale non è, di per sé, una cosa necessariamente positiva. Genuflettersi di fronte a qualunque cosa venga definita “culturale”, come se “cultura” fosse una parola magica in grado di nobilitare tutto quanto essa investa, è una depravazione tipica dei nostri tempi, che ha dato origine agli sperperi e agli abusi più sfrenati, non ultimo quello di Ai Weiwei. La cultura di cui si fa portavoce il suo vaso imbrattato è cultura della provocazione fine a se stessa, su cui è stata ricamata un’aura di protesta politica che, in realtà, è puro ossequio alle regole dell’industria culturale. Del resto, se Ai Weiwei fosse per davvero l’ironico provocatore e dissidente che l’industria ci somministra, avrebbe probabilmente sorriso del fatto che qualcuno, per protesta contro lo star-system dell’arte, abbia fatto del suo vaso la “distruzione della distruzione”, l’ennesimo gesto artistico senza precedenti. Il New York Times racconta, invece, di un Ai Weiwei particolarmente infastidito dalla vicenda. Una vera delusione.
Per tornare alla domanda di Jonathan Jones, e per concludere: perché ci indigniamo quando un povero Signor Nessuno imbratta, distrugge, deturpa una qualsiasi opera d’arte, e siamo invece prodighi di scappellate e riverenze se a farlo è uno perfettamente integrato nello star-system? Un senso positivo in tutto ciò, come sempre, lo vede solo chi lo vuol vedere: il re è nudo, e noi ancora troppo restii a riconoscerne le oscene pudenda. Ai tempi dello smantellamento del Pantheon si coniò la pasquinata “Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini”, la casata d’appartenenza di Urbano VIII. La distinzione tra le due categorie appare comunque evidente, e non a caso i Barberini furono tra i più grandi mecenati della Roma del XVII Secolo. Cosa direbbe Pasquino, oggi che barbari e Barberini sono la stessa entità?
Vittorio Parisi
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