Le felici coincidenze di Marilena Bonomo
La prima domanda, pronta per questa intervista, voleva lambire la sociologia applicata. Qualcosa del tipo: “In questo ciclo di incontri con i grandi galleristi italiani, abbiamo intervistato finora due donne, ed entrambe del sud Italia. Perché? C’è qualcosa nella donna del sud che la porta a indagare, rischiare, investire?”. Ma lei la smonta subito: “La mia formazione in realtà inizia in America, dove sono andata giovanissima a lavorare in un museo a Dallas, Texas”. Lei è Marilena Bonomo, una signora elegante e sempre entusiasta che più di quarant’anni fa lancia una sfida che i suoi stessi amici definivano folle: aprire una galleria d’arte contemporanea di ricerca internazionale a Bari.
Il suo è un esordio americano. Quindi gli sviluppi, che la vedranno poi scoprire tanti giovani talenti Usa, erano già scritti…
Andai a lavorare con il Fine Arts Museum di Dallas, vicina a mio marito che era in Texas per perfezionare studi in medicina. Il museo aveva un’attività piuttosto ampia, con diverse attività culturali, anche musicali. Io collaboravo con diversi settori, anche grazie alla lingua italiana. Quindi le mie prime esperienze con il mondo dell’arte furono nell’ambito museale.
Per questo la mostra d’esordio della galleria, nel 1971, aveva un così forte colorito americano?
Dopo l’esperienza americana, tornai in Italia e mi laureai in filosofia, ma ormai i miei interessi erano tutti per l’arte. Conoscevo già molti artisti, anche nel ruolo di collezionista, con mio marito: prima di tutti Lucio Fontana, poi ricordo Kounellis, che ci aveva impressionati per la grande novità che portava con la sue opere, e Giulio Paolini, che forse è stato il primo artista concettuale al mondo. Dal mio rientro all’apertura della galleria sono passati cinque o sei anni in cui ho seguito il mondo dell’arte, soprattutto a Roma e Milano, dove ho conosciuto diversi galleristi, in quel momento ancora nel mio ruolo di collezionista. Per esempio Toselli a Milano, e poi Pio Monti, un gallerista molto intelligente e coinvolgente. Sì, la prima mostra, una collettiva, aveva diversi artisti americani allora quasi sconosciuti: c’erano Barry, Mel Bochner, Boetti, Buren, Darboven, Dibbets, Fabro, Huebler, Lewitt, Paolini, Ryman, Weiner…
Un programma dirompente, in quel momento. Come reagì l’ambiente?
La risposta di Bari e della Puglia fu quella della curiosità: la gente era attratta da qualcosa di diverso, e quando vedevano che una parete era occupata solo da una linea, o da pochi segni, pochi colori, si domandavano cosa stesse succedendo. Fu molto difficile conquistare l’adesione dell’ambiente, e comunque il mio lavoro era con collezionisti nazionali e internazionali. A Bari fino a quel momento arrivavano solo galleristi che trattavano arte italiana, sempre figurativa. Quindi ci fu sorpresa per questi nomi nuovi, anche se in America erano già conosciuti. Per me quella di Bari fu una scelta naturale, visto che vivevo qui: del resto a me interessava l’idea di aprire una galleria, non mi interessava il luogo, l’avrei fatto dovunque.
La galleria divenne presto meta di grandi personaggi in visita in Puglia. Ci ricorda qualche episodio?
La grande musicista e cantante rock Laurie Anderson, poi compagna di Lou Reed, arrivò in galleria tornando dalla Grecia e ci mostrò una specie di installazione con il suo violino ed alcune registrazioni audio. Un altro episodio che ricordo spesso è legato ad Alighiero Boetti, personaggio immenso, non serve dire perché. Da noi conobbe e lavorò insieme a un giovane artista, Biagio Caldarelli. Una volta questi gli chiese quale fosse l’aspetto magico del suo lavoro, e Boetti rispose una cosa che resta impressa nella mia mente: “Sono le felici coincidenze”.
In quegli anni com’era il panorama italiano? Dominava l’Arte Povera…
Sì, ma non era così evidente. Esisteva, ma era ancora una nicchia nella scena dell’arte. La realtà è che, in quel momento, l’arte che si vendeva in Italia era quella dei “maestri” del Novecento – ad esempio Carrà o Morandi – mentre altri non erano riconosciuti, come Licini, tuttora ignorato ma di maggiore importanza, in prospettiva.
Quali erano le gallerie d’arte di riferimento in quel momento?
Gian Enzo Sperone, ovviamente, a Torino, e sempre a Torino Christian Stein, fondamentale per l’Arte Povera. Sargentini a Roma. A Milano ce n’erano molte, ma non molto d’avanguardia: penso al Milione, al Naviglio di Cardazzo, ma erano gallerie più storiche. A Genova molto centrale era la Samangallery di Ida Gianelli, che allora era la compagna di Germano Celant, che aveva già grandi contatti con artisti americani. Quando noi aprimmo, nel ’71, avevamo spesso rapporti con loro: gli artisti che passavano da noi, poi esponevano a Genova, e viceversa.
Poi c’è il fervido rapporto con Napoli e con Lucio Amelio…
Un gallerista che è scomparso presto, e non ce ne sarà più uno uguale. Una vivacità, un’intelligenza e un gusto straordinari. Lo abbiamo conosciuto prima da collezionisti: noi spesso andavamo a Napoli e passavamo il fine settimana con lui, che era una fonte inesauribile di informazioni, oltre che un grande amico. Poi, quando aprimmo la galleria, anche lui veniva spesso a Bari, ed è stato uno dei personaggi di riferimento per tante nostre scelte. Anche se lui seguiva artisti diversi. Lui non amava il Concettuale, al di là del rapporto con Beuys, ma seguiva più Warhol e in genere la Pop Art. Ha fatto anche mostre di Buren, di LeWitt, di Boetti, ma le sue preferenze, il suo occhio erano verso altri generi, nomi come Gerhard Richter…
Il suo rapporto con l’arte americana passò da quello con Sol LeWitt.
Io ho aperto la galleria nel 1971 e in quello stesso anno ho conosciuto LeWitt, che venne a Bari e fu ospite nostro. Lui rientrava dalla Jugoslavia, dove aveva vinto un premio per la grafica: sapeva che a Bari c’erano questi collezionisti, così interessati alla scena dell’arte, anche americana, e venne a trovarci. Si creò un rapporto di simpatia e di adesione intellettuale: fu una figura molto influente per me, mi presentò i più grandi galleristi internazionali, e molti personaggi poi fondamentali per la mia attività.
Il vostro è stato un rapporto molto intenso: ci racconta qualche aneddoto
Beh, mi viene in mente questo: lui non amava, anzi odiava farsi fotografare. Venne Lisa Ponti, che voleva fare una pagina su di lui per Domus, e lui non si fece ritrarre. Però realizzò per lei una specie di autobiografia con tante Polaroid dedicate alla sua vita, ai suoi oggetti, alle matite che adoperava, alla strada che percorreva, alle pietre che incontrava. Era una persona dal pensiero molto profondo, ma isolata, non amava la società “mondana”: preferiva osservare i dettagli delle cose. Poi ci fu quella volta che venne in galleria per allestire la sua personale, e mi sorprese perché tutto il progetto era contenuto in un piccolo foglietto: c’erano solo i numeri 1, 2, 3 e 4, corrispondenti ai colori base. Sovrapponendo questi colori, otteneva tutta la gamma delle tonalità che desiderava: per esempio 1+1+3 poteva essere il viola, 1+2+4 magari l’arancio. Quando, durante il mese che passò con noi, andammo a Spoleto, dove io ho una casa, lui volle arrivare ad Arezzo per vedere gli affreschi di Piero della Francesca: studiava attentamente quella pittura, diceva che la sua sintonia con i colori si basava molto sulle affinità con quelle pitture murali.
Spoleto è molto legata anche alla sua attività con gli artisti. Come nasce il rapporto con questa realtà?
Noi abbiamo una casa in un eremo a Monteluco, l’altura che domina Spoleto, dove si trova anche la casa dell’artista Domenico Gnoli, che è sepolto in un piccolo cimitero vicino. Una casa legata alla mia famiglia materna, per cui l’estate spesso passavamo dei periodi in Umbria. E proprio su quelle pareti ci sono – tuttora! – i primi esempi di wall drawing di Sol LeWitt, disegni che lui realizzava ancora da solo a matita. E in casa c’erano anche opere murali di altri artisti, come il newyorchese Mel Bochner.
Ma le mostre dove si tenevano?
Più tardi abbiamo individuato la Torre Civica, proprio nel centro di Spoleto, l’abbiamo restaurata e abbiamo iniziato una serie di mostre, inaugurata da Richard Nonas. La seconda fu proprio di Sol LeWitt, che fece un lavoro molto particolare, wall drawing realizzati però con scritture che tracciavano linee e forme geometriche; la mostra successiva fu invece di Paolini, un progetto basato sulle ore del giorno che era in dialogo con quello precedente di LeWitt. Tutte queste opere sono tuttora visibili, dopo più di trenta anni, nella torre di Spoleto.
Nella sua attività ha stretto rapporti anche con collezionisti storici…
Pensare di fare una galleria d’arte d’avanguardia a Bari in quel momento era una follia, è normale che ci fosse un forte collegamento con l’ambiente internazionale. Cruciale per me è stato per esempio il rapporto con il conte Panza di Biumo: lui, quando si interessava a un artista, poi non comprava qualche opera, ma tutta la mostra in blocco. Lui, come noi, voleva scoprire gli artisti all’inizio, prima che questi diventassero famosi: una volta dichiarò pubblicamente che i suoi riferimenti, in Italia, erano Sperone e Bonomo, a Bari. Per gli artisti, entrare nella sua collezione significava un “lasciapassare” a tutti i livelli. Uno di questi fu Richard Nonas: era già attivo in America, ma ottenne il successo solo quando entrò nella collezione Panza di Biumo. Lui tramite noi acquistò opere di molti americani, da David Tremlett ad Anne Darboven.
Bari non è solo la città che ha ospitato la sua galleria. Lei ha spesso cercato rapporti con l’ambiente e il territorio, anche con progetti di arte pubblica.
Sì, al fianco dell’attività privata, quella della galleria, nel tempo si è sviluppato questo desiderio di contribuire a una crescita più allargata della sensibilità verso l’arte contemporanea. La città non aveva, almeno agli inizi, informazioni aggiornate: l’arte veniva intesa in senso “classico”, tradizionale, arrivavano a volte gallerie da fuori, ma con mostre sempre di arte italiana. Ho proposto mostre, cercando di inserire una maggiore apertura internazionale: una si intitolava Sculture da camera, con opere di piccole dimensioni ma di grandissimi nomi, che ebbe un grande successo. Dopo Bari, si spostò a Utrecht, Ginevra, Los Angeles, Atene, Madrid…
Poi organizzaste alcune mostre site specific alla Sala Murat.
Sì, questo qualche anno più tardi. Assessore alla cultura era Pinuccio Tatarella [l’ideatore di Alleanza Nazionale, scomparso nel 1999, N.d.R.], una persona di grande sensibilità culturale, il quale diceva sempre che Bari non aveva bisogno di pane, ma di cultura. Lui ha sempre incoraggiato molto la nostra attività: con lui organizzammo un progetto allo Stadio della Vittoria, che aveva ospitato i profughi albanesi che arrivavano con le famose carrette del mare, e ne uscì distrutto; poi venne restaurato, e in quell’occasione presentammo una mostra molto importante, intitolata Arena Puglia, inaugurata dal Presidente della Repubblica, che allora era Scalfaro. Quando Tatarella morì, le mostre continuarono con la moglie Angiola, che era diventata lei assessore al Comune di Bari: mostre alla Sala Murat e al Castello Svevo. Iniziammo con Chen Zhen e Marco Nereo Rotelli, poi fu la volta di Sol LeWitt – che realizzò una grande opera sulla parete della Sala Murat, che purtroppo non è stata capita e molto rovinata – e Mimmo Paladino, che al castello presentò I dormienti.
Oggi ci sono progetti molto ambiziosi a Bari per il contemporaneo, come il BAC al Teatro Margherita. Come giudica queste iniziative?
Io non li giudico, perché non sono entrata nello spirito della cosa. Non conoscevo chi oggi sta promuovendo questi progetti, non sono soggetti noti nel mondo dell’arte: Bonito Oliva è stato coinvolto, ma non è lui che promuove questi progetti, ci sono istituzioni emerse ora, in questa occasione. Anche a livello politico non ci sono stati altri assessori vicini alle questioni dell’arte: c’è stato sì il sindaco Emiliano, attento a certe sensibilità, ma non essendo esperto di arte, si è sempre affidato ad altri delegati.
Tornando al lavoro della galleria: qual è il suo rapporto con le fiere d’arte? Lei è stata spesso coinvolta, come espositrice ma anche come organizzatrice.
Partecipai per la prima volta ad Art Basel assieme a una gallerista di Zurigo, dividendo uno stand che presentava opere di un artista trattato da entrambe, Robert Mangold. Ero andata alla fiera su indicazione di Lucio Amelio, che allora faceva parte del comitato di selezione. Poi sì, alla fine degli Anni Settanta fui coinvolta con l’esperienza di Expo Arte, nell’organizzazione artistica della fiera. L’iniziativa era di Stefano Romanazzi, presidente della Fiera del Levante e anche collezionista: grazie ai nostri contatti arrivarono a Bari giganti dell’arte internazionale, gallerie come Leo Castelli, Ileana Sonnabend, Marian Goodman, Yvon Lambert, e le migliori italiane, da Sperone a Guido Le Noci, Amelio, Toselli.
Lei avrà una ricca collezione privata. Cosa ci farà?
Mah, direi che la mia collezione privata è fatta dagli invenduti! Un gallerista non può essere anche collezionista: la nostra raccolta è stata creata più che mai da mio marito, ma è una cosa distinta dalla galleria. Non credo che comunque penseremo di esporre la collezione al pubblico: non sentiamo interesse in questo senso. Ci fu una donazione della Cassa di Risparmio di Bari, di un’opera di LeWitt, ma fu destinata alla sede di Foggia. Ci sono altri casi isolati: per esempio Stephen Antonakos, morto lo scorso anno, che realizzò un’opera sul muro esterno della Sala Murat, e poi una grande opera neon all’aeroporto di Bari…
Massimo Mattioli
www.galleriabonomobari.it
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