Lo One dollar di Jefferson Hayman e l’economia dell’arte
Fotografare un dollaro, farne 25 copie inquadrate e renderle un multiplo d’artista. Un gesto semplice, che però non ha nulla a che fare con il ready made. E che invece va a sollecitare il cuore stesso dell’economia e della finanza contemporanee. Una riflessione a partire dall’opera di Jefferson Hayman.
L’opera One dollar di Jefferson Hayman (Wilmington, 1969; vive a New York) si può considerare, sotto tutti i punti di vista, un autentico trattato teologico-economico sulla circolarità dialettica innescata dalla differenza costitutiva tra l’oggetto “moneta” e il concetto “denaro”, dall’invisibile tensione fra valore reale e valore nominale. Un singolo biglietto verde americano, con il suo tipico numero di serie e anno di emissione da parte della Federal Reserve, fuoriesce dalla dimensione puramente economico-politica e viene trasferito nella sfera estetica grazie all’atto della produzione artistica. La possibilità di rientrare nella sfera dello scambio, in questo caso il mercato dell’arte, è vincolata all’acquisto da parte del collezionista: vi ritorna, appunto, sotto forma di opera d’arte, sebbene (eludendo con eleganza i dettami più spartani della Pop Art) non come ready made, ossia come banconota, con il suo irrisorio valore materiale, bensì trasformata a livello ontologico dal medium fotografico (come già rivelano le ridotte dimensioni dell’oggetto) e mutata, grazie alla collocazione miniaturizzata al centro dell’ampia cornice scura, in una sorta di gioiello, di pietra preziosa.
Rappresentazione artistica della rappresentazione economica, One dollar è quindi una rappresentazione di secondo grado, dotata però, paradossalmente, di un contenuto di realtà maggiore rispetto all’oggetto raffigurato. Qui la finzione artistica, contrariamente al solito, ha addirittura aggiunto realtà e concretezza alla finzione economica, andando a costituire ex novo quel sottostante materiale che a quest’ultima manca (almeno fin dall’abolizione del gold exchange standard). E questo non rivela tanto la natura divina e creatrice del gesto artistico, quanto piuttosto la palese assurdità della teoria economica dominante e la fragilità del mondo finanziario da essa creato e legittimato.
In generale, infatti, la moneta, specie in forma cartacea e ancor più nella sua recente versione elettronica, continua a essere non solo la finzione religiosa più grandiosa ed efficace della storia umana, avvolta com’è, soprattutto oggi, dai fumi mistici diffusi dai sommi sacerdoti (o forse stregoni) monetaristi, ma è diventata anche e indiscutibilmente la finzione più potente, essendo basata sulla pura fede che un foglietto di carta abbia un valore nominale multiplo rispetto al suo valore reale, senza peraltro nessun sottostante fisico che possa garantirlo. Solo due entità materiali, de facto, offrono simile garanzia: l’autorità armata dell’emittente – super-Stato sovrano riconosciuto da tutta la comunità degli Stati sovrani – e la stessa, mastodontica, indistinta massa monetaria circolante, quella reserve currency creata e progressivamente alimentata dall’eufemistico quantitative “easing”. Un’illogica tautologia, si direbbe, che ha però l’unico e non secondario pregio di funzionare ancora.
Con il suo gesto, semplice ma profondamente metamorfico e implicitamente rivoluzionario, l’artista cancella d’un tratto tutti gli elementi caratteristici dell’oggetto “moneta” e del concetto “denaro”. Limitando la riproduzione di One dollar a una serie di sole venticinque copie, ad esempio, Hayman oblitera la tipica standardizzazione e uniformità delle banconote, ne contraddice l’illimitata creatio ex nihilo in un diluvio di infinite repliche identiche nonché l’universale fungibilità ed equivalenza. E in questo senso l’opera costituisce una seria riflessione sulla categoria dell’individualità.
Fissando poi il lavoro alla parete di una galleria o di un museo in veste di fotografia artistica, assegnandogli un proprietario determinato, rendendolo oggetto di personale contemplazione, l’artista sottrae One dollar al suo destino di assoluta e superficiale mobilità, salvandolo dallo sradicamento e impedendogli così di sparire in flussi monetari immateriali, caotici, indifferenziati: proprio come farebbe un poeta con le preziose parole di un’antica, nobile lingua, l’inglese, cui sembra toccata in sorte la medesima degradazione spettante alla valuta globale per eccellenza. A tal proposito, One dollar rivela una malcelata ispirazione soteriologica, che infine ritroviamo anche nella tecnica classica ai sali d’argento adottata per sviluppare l’immagine. Come nella serie fotografica dedicata a New York, Hayman ricrea un’atmosfera d’antan, rievoca un’epoca sicura di sé e ottimista, ma irrimediabilmente trascorsa, quando al significato simbolico del “verdone” erano ancora connesse, nel mondo intero, speranze e attese che ormai la crisi globale, di cui l’America è stata epicentro e detonatore, ha definitivamente spazzato via.
Quel One dollar stampato nel 1995, ma che sembra risalire a parecchi decenni fa, ha già, e manterrà a lungo, l’aspetto di un reperto numismatico, icona e vestigia di un mondo che sta sparendo o che forse, a nostra insaputa, la storia ha già sepolto.
Veronica Liotti e Stefano Franchini
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