Luccicanza del postmoderno italiano

“Lo scetticismo è un’ideologia del riflesso. Parodia dello sguardo critico e insieme consumata abilità a godere dei privilegi della restaurazione”. Così Bernard Rosenthal nel 1979 coglieva in presa diretta il carattere della cultura espressione della “controrivoluzione” degli anni Ottanta.

La cultura degli Anni Ottanta rispondeva al mutamento vissuto nel passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale della società sotto il capitale, quell’antropomorfosi che possiamo indicare anche come biocapitalismo: messa al lavoro integrale di corpi, cervelli ed emozioni. David Harvey e Fredric Jameson hanno chiamato questo mutamento “condizione postmoderna”, e in questo senso le teorie postmoderniste sarebbero le “sentinelle” che segnalano il passaggio in corso.
È bene allora chiedersi come abbia operato la sentinella postmoderna in Italia. Indichiamo intanto alcuni snodi del nuovo paesaggio culturale che si definisce intorno alla metà degli Anni Settanta: nel 1976 esce L’ideologia del traditore di Achille Bonito Oliva, saggio che contiene in nuce la proposta neomanierista della Transavanguardia, e nello stesso anno con la fondazione dello studio Alchimia nasce l’oggetto postmoderno che segna la crisi del progetto moderno. Nel ‘78 esce La parola innamorata, antologia poetica nata come rivolta nei confronti della neoavanguardia. Si propone il recupero ludico-amoroso della parola contro la parola ideologizzata, orfismo e soggettivismo lirico recuperano la tradizione post-simbolista proponendo una poetica della danza che rompe con lo sperimentalismo. Nello stesso anno esce, su L’Espresso, “Il vangelo socialista”, un articolo di Bettino Craxi che si inserisce pienamente in quel nuovo corso politico-culturale che porterà il PSI a essere, per un breve lasso di tempo, il partito dell’intellettualità di massa.

Milano, Ex Ansaldo, 1989 -Bettino Craxi al 45esimo congresso del PSI, davanti alla piramide di Filippo Panseca

Milano, Ex Ansaldo, 1989 -Bettino Craxi al 45esimo congresso del PSI, davanti alla piramide di Filippo Panseca

Nel ’79 vengono pubblicati Se una notte d’inverno un viaggiatore, il metaromanzo di Italo Calvino, e Crisi della ragione a cura di Aldo Giorgio Gargani, che testimoniano e mettono a fuoco la crisi della ragione conoscitiva. Il 1980 è l’anno de Il nome della rosa di Umberto Eco, che risponde alla crisi del modernismo proponendo strutture di racconto gratificanti e rivisitando ironicamente il passato. È anche l’anno della Biennale postmoderna: La presenza del passato di Paolo Portoghesi, l’Oggetto banale di Alessandro Mendini e la Transavanguardia ad Aperto. Infine nel 1983 esce Il pensiero debole, manifesto filosofico curato da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti che, insieme alla Transavanguardia, costituisce il dispositivo che riassume i caratteri del postmodernismo italiano.
Queste teorie assumono la crisi del futuro come orizzonte aperto da colonizzare, liquidano la retorica del superamento e costruiscono una retorica della fine del progresso. Il pensiero debole è Verwindung, ovvero torsione della metafisica moderna (che non si può superare e alla quale rimettersi), e la Transavanguardia è Verwindung in quanto torsione della logica delle avanguardie e neoavanguardie. In questo senso, pensiero debole e Transavanguardia sono la stessa cosa: il tempo del progresso ripiegato su se stesso, torsione del moderno.

Enzo Cucchi, Paesaggio barbaro

Enzo Cucchi, Paesaggio barbaro

Eppure la critica a un dispositivo costruito sulla crisi del progresso era già stata formulata da Paul Valéry quando scriveva: “All’idolo del progresso, rispose l’idolo della maledizione del progresso; il che creò due luoghi comuni”. In Italia questo luogo comune è diventato un apparato di cattura, un dispositivo che ha frenato quella liberazione che in potenza era stata portata in superficie dalla Great Transformation degli Anni Settanta e che il movimento del ‘77 aveva intuito. E ha funzionato come ideologia non perché ha rifiutato o disconosciuto la liberazione possibile, ma perché l’ha fatta propria neutralizzandola però nel cinismo della fine della storia.
Il capolavoro del postmodernismo italiano consiste insomma nell’aver costruito un dispositivo culturale libertario curvandolo a destra, un movimento ripetuto politicamente dal PSI, che coniugava “differenza” e disuguaglianza. Una raffinata ideologia scettica, come si diceva all’inizio, che non si può liquidare come semplice neoconservatorismo. Eppure le fantasmagorie postmoderniste rimangono in radice la logica culturale del tardo capitalismo, né soddisfano i pur lucidi tentativi di riproporre il progetto incompiuto della modernità (in questo senso si ricordi Il progetto moderno dell’arte di Filiberto Menna). Sono passati diversi lustri dalla New Wave postmodernista, ma quella controrivoluzione ha segnato in profondità la cultura italiana. Tanto che ancora oggi, se non vogliamo rimanere abbagliati dalla luccicanza di certa cultura che, invincibilmente attratta dallo splendore e dalla gloria della società dello spettacolo, predica l’impotenza, dobbiamo organizzare l’Underground Railroad lungo la quale fuggire, e tornare a sperimentare.

Nicolas Martino

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16

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