Nel primo cortile della Collezione Maramotti, Mark Manders (Volkel, 1968) presenta una sua installazione. Cose in corso è il titolo che l’artista ha dato al percorso allestitivo realizzato per Reggio Emilia, rievocando una sorta di continuità ideale con la storia dei ben noti progetti che la hanno preceduta.
La teatralità di questo spazio-nello-spazio sembra riprodurre, rompendo le righe della terza dimensione, un dipinto di Giorgio de Chirico (I piaceri del poeta, 1911), impiegando oggetti già presenti nei suoi lavori, come la vasca da bagno, le sedie e il busto di una polena immaginaria che si distende sull’asse lignea poggiata alla sedia. L’installazione è collocata su un pavimento costituito da mattonelle in ferro, ricreando un ambiente virtuale separato, isolato e apparentemente silenzioso. L’artista qui descrive e commenta il lavoro.
Potresti brevemente descrivere da dove Cose in Corso trae la propria origine?
Ogni mio lavoro è un progetto nato propriamente dal mio studio e, fin da principio, per il mio studio. Ogni forma primaria, ogni stadio primigenio delle mie idee prende vita dallo spazio nel quale io ricreo, a mia volta, nuovi angoli di spazio. Sembra quasi superfluo ribadirlo, ma quando plasmo creta, legno e bronzo, oppure, quando assemblo gli oggetti che trovo, devo far coincidere la mia idea con un angolo immaginario che traccio al centro del mio studio. E il mio primo approccio nasce da una suddivisione mentale delle svariate metrature a mia disposizione.
Molto spazio significa molte possibilità. Spesso capita che, dopo aver delineato, con un incrocio di assi di legno, l’angolo dal quale dovrei partire per dare una composizione fisica alle ricerche di quel momento, questa operazione mi porti a conferire autonomia formale e a dare un completamento consecutivo a tre nuovi lavori, dei quali mai avrei pensato di riuscire a realizzare. Nella mia mente cerco sempre di far coincidere lo spazio mentale con quello reale, creando soluzioni che aggirino il pensiero, per imprimere desiderio, processo e una sorta di visione pittorica al proscenio degli oggetti che assemblo.
Come hai realizzato, invece, questo tuo nuovo autoritratto per gli spazi della Collezione Maramotti? E quanto hai attinto alla tua formazione visuale?
Ricordo di aver compreso di dover fare l’artista a 18 anni, all’incirca nel 1986, quando ho realizzato il mio primo lavoro Inhabited for a Survey (First Floor Plan from Self-Portrait as a Building). Il mio sogno è sempre stato quello di diventare un inventore, ma a sedici anni ho cominciato a lavorare in un’azienda che stampava carta, studiando parallelamente la grafica e avvicinandomi, nell’arco di poco tempo, alla pubblicità. Il mondo degli scarti di cellulosa e della loro incredibile malleabilità mi ha sempre affascinato: riuscivo a creare strutture resistenti da un materiale di per sé deperibile e fragile.
Ma quello che più mi ha incuriosito, mentre lavoravo in quello studio, è stato un libro, un volume molto spesso. Lo ricordo molto bene perché è stata la prima volta che mi sono avvicinato liberamente all’arte e ne sono rimasto stregato. Era una pubblicazione dedicata all’ultimo Picasso, all’interno del quale il maestro, attraverso numerose fotografie, mostrava i diversi livelli che sottostanno a uno dei suoi dipinti. Quel che mi ha impressionato è stato vedersi manifestare le diverse fasi del colore, della composizione e, soprattutto, leggere, partendo da una composizione figurale, le azioni, i gesti, i processi che la precedono.
Per quanto riguarda Isolated Bathroom / Composition with Four Colors, non ho fatto altro che realizzare una piattaforma pittorica attraversabile. Uno spazio performativo all’interno del quale potrebbe essere possibile disporre a piacimento le sdraio, così come immaginare che chiunque possa plasmare la creta; a disposizione nella vasca bianca di creta che ho posto a un angolo della piattaforma. L’ho immaginato come uno spazio silenzioso in cui gli elementi colorati rievocano l’energia della solarità così come la purezza della rigenerazione. A volte, guardandola mi sembra di aver realizzato un de Chirico tridimensionale, prendendo a prestito un busto etrusco e averli installati sulla superficie di un lavoro di Carl Andre. Io non sono un artista onnivoro, non mi nutro di qualsiasi cosa: sono un cannibale, nel senso che metabolizzo il mio linguaggio, le mie estensioni nel tempo, riflesse, in parallelo, nella storia dell’arte.
Qual è la tua idea del Sé umano come struttura metaforica e come forma simbolica?
Molte volte mi sono chiesto se avesse senso essere un’artista e se davvero avessi qualcosa di speciale da trasmettere. Perché mostrare ad altri esseri umani il proprio essere? In realtà, con il tempo, ho scoperto che il mio compito come artista è creare spazi per l’arte, spazi vuoti, riscrivibili. Frammenti all’interno dei quali diventare artisti attraversando uno spazio puro, integro. Non è un caso che accanto ai simboli della materia io abbia inserito, proprio come in Isolated Bathroom / Composition with Four Colors, un volto umano, la forma visibile del Sé. La vasca bianca ricoperta di cellophane sembra che contenga creta umida al suo interno, in realtà è solo una rappresentazione. Un’immagine di un contenitore che dovrebbe fornire a chiunque la possibilità di fermarsi e di modellare a proprio piacimento, attraverso l’argilla cruda, il busto che ho lasciato volontariamente incompleto.
All’interno di Cose in corso, come gli oggetti e i materiali insegnano ad amalgamarsi e a cambiare? E come acquisire nuove capacità di trasformarsi?
Gli oggetti, da noi umani, non vogliono niente: siamo noi a crearli affinché possano fare quel che noi non possiamo, solo perché siamo vivi. In A place where my thoughts are frozen together, del 2001, ho posto una zolletta di zucchero in sospensione tra il manico di una tazza da caffè e un osso femorale. Vedere la loro purezza in sequenza, le diverse sfumature di bianco che li contraddistinguono e le superfici che li racchiudono mi fa capire ogni volta come gli oggetti parlino e quali siano le loro parole. Gli oggetti sono parole che noi usiamo, che noi chiamiamo e creiamo esattamente conformati sui nostri pensieri. La zolletta di zucchero rimane sospesa tra l’osso e la tazza meglio di quanto non potremmo fare noi, tenendola fra le dita; essa mostra, per associazione, esattamente la stessa natura delle cose che la attorniano e la sollevano. Amo molto gli oggetti che sotto-stanno rispetto alla superficie e che rivelano un limite chiaro tra interno ed esterno, sottolineando la loro funzione di prolungamenti a doppio senso tra le due dimensioni. Sfere che grazie ad essi non sono mai del tutto separate.
Potresti descrivere la tua idea di architetture in itinere? Come definiresti l’architettura? Ogni volta che creo uno spazio definisco me stesso e costruisco un autoritratto, una porzione della mia identità. Quando compongo le mie installazioni, mi sento inevitabilmente all’interno di quel che faccio e sono certo che anche gli altri possano leggermi, a causa di esse; attraversando i miei pensieri, i miei ricordi meglio di come io stesso potrei rivelarli. L’interpretazione di oggetti, elementi e materiali dà vita a frasi che mi interpretano, rendendo viva la loro immagine, tra funzione e finzione. Nella mia Room with five (19993-2001), ad esempio, ho riempito una stanza con tutti i numeri cinque che sono riuscito a trovare. Per me il 5 non era null’altro che il numero in sé, un oggetto ripetuto per ripetermi. Nella mia mente avevo l’idea di ricreare un ordine a partire da infinite sequenze che riportassero sempre lo stesso elemento, riformulato molte volte, in maniera diversa, fino alla perdita di qualsiasi senso.
Potresti raccontare come hai selezionato i materiali coinvolti nel progetto della Collezione Maramotti? Stai attualmente provando a utilizzare nuovi materiali come resine, siliconi, gel o tessuti differenti rispetto alla tua esperienza?
Sembrano tutti materiali grezzi e deperibili, quelli che assemblo, in realtà questa è l’immagine naturale, quasi archetipica che voglio restituire a loro. Ne è l’esempio la vasca di Isolated Bathroom / Composition with Four Colors, che nonostante l’essere pura e immacolata è composta di alluminio calamitato, un processo industriale creato per attirare i pigmenti chimici della vernice color ghiaccio. Così come lo è l’idea che sussista argilla umida al di sotto del cellophane.
In Abandoned room, constructed to provide persistent absence (1992-2010) ho impiegato 18 anni per completare le forme di animali in bronzo che al di sotto del cellophane potessero assomigliare a forme di argilla fresca. Persino i volti che io inserisco nelle installazioni non sono nient’altro che stilizzazioni di volti umani reali, dando vita ad una doppia consistenza e ad una doppia esistenza dei materiali che scelgo.
Potresti formulare un augurio che accompagni Cose in corso?
Così come vorrei che Isolated Bathroom / Composition with Four Colors fosse una piattaforma utile alla distensione della mente, vorrei che quell’installazione rimanesse congelata così com’è e così dove si trova adesso, per anni, per secoli. Vorrei che l’installazione esposta in Cose in corso seguisse il processo contrario delle persone che crescono e che cambiano con il tempo. Vorrei che attraverso questo lavoro la gente potesse vedere i pensieri che la hanno creata; immaginando di avere di fronte a loro un dipinto che si possa non solo immaginare come tale, ma anche attraversare.
Ginevra Bria
Reggio Emilia // fino al 28 settembre 2014
Mark Manders – Cose in corso
COLLEZIONE MARAMOTTI
Via Fratelli Cervi 66
0522 382484
[email protected]
www.collezionemaramotti.org
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