Al centro c’era una macchina.
Mentre la guardavo, cominciò a ronzare pensosamente,
e diverse file di luci formarono uno schema, si fermarono
e poi ne formarono un altro. Era un computer dei vecchi
tempi (quando eravate voi a possedere questa
Terra, voi fantasmi e memorie).
Samuel R. Delany, Una favolosa tenebra informe
(The Einstein Intersection, 1967)
Pericolo di crollo, c’è scritto in bianco a caratteri cubitali sulla casetta di campagna a San Felice sul Panaro, che scivola via dal finestrino del treno regionale.
È scritto grande due volte, per avvertire – presumibilmente – gli sconsiderati e gli svitati che dovessero tentare di penetrarvi, magari di notte. E non ci riguarda forse tutti, questo avviso? Non ci mette in allarme? (Il tetto è sfondato, composto solo di legnetti aguzzi che spuntano dai mattoni divelti.)
“Pericolo di crollo” vuol dire che sta per venire giù tutto. Anche l’intelaiatura psichica è pericolante: il modo in cui percepiamo e interpretiamo il mondo sociale attorno a noi è stato talmente brutalizzato da non significare quasi più nulla. Ci muoviamo un po’ tutti come ombre: da una parte, seguendo disperatamente e pigramente sistemi comportamentali ereditati dal passato, dalle generazioni che ci hanno preceduto; dall’altra, abbandonando con irresponsabilità intere porzioni di comprensione, di conoscenza, di complessità. (Ci costa infatti troppa fatica, troppo sforzo dedicarci all’interpretazione: meglio farci agire.)
L’isteria collettiva. La frenesia. In questo momento c’è chi reagisce molto male alla crisi – e chi non reagisce proprio. Sbiellate le istituzioni psichiche. I sostegni e le impalcature sono saltati, evaporati: come se non fossero mai esistiti. E non è la solita faccenda delle generazioni che, invecchiando, considerano dall’alto in basso i più giovani. C’è dell’altro, molto più profondo e grave – inedito. C’è che questi vecchi e quasi-vecchi dopo aver sperperato tutto e tutto mandato in malora non sanno proprio che farsene della loro vecchiaia; non hanno esperienza, o è esattamente come se non l’avessero; ci odiano.
E allora, questa continua percezione di pericolo e minaccia; questa insicurezza costante, attentato perenne al presente e al futuro delle nostre esistenze, il non poter mai stare veramente tranquilli e il dover affrontare emergenze consequenziali e stratificati (sebbene inutili: ed è questo l’aspetto più assurdo dell’intera faccenda), l’essere costretti a immaginarci infelici e terremotati nell’animo… tutto questo è qualcosa che ci cambia, che ci sta cambiando. Non necessariamente in peggio. Ci allontana dal lato vacuo, stupido, superfluo delle cose e della vita; ci smuove e ci irrigidisce, ci rende duri e resistenti.
L’amarezza ci indurisce.
C’è questa durezza amara in noi, sconosciuta e al tempo stesso antica, che non è una forza negativa ma costruttiva. Che contribuisce a determinarci – di nuovo – come costruttori: “Un Paese che ignora il proprio ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di sapere nulla, non può avere un domani. Io mi ricordo una definizione dell’Italia che mi dette in tempi lontanissimi un mio maestro e anche benefattore, che fu un grande giornalista, Ugo Ojetti, il quale mi disse: ‘Ma tu non hai ancora capito che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria’. Io avevo 25-26 anni e la presi come una boutade, per una battuta, un paradosso. Mi sono accorto che aveva assolutamente ragione. […] Per l’Italia non vedo un futuro, per gli italiani ne vedo uno brillante” (Indro Montanelli).
Ti porti appresso i tuoi detriti. Scatole, scatoloni. Carte, cartacce, libri – e anche idee, che cominciano a marcire. Pezzi di esistenza sepolti, dissepolti e trasferiti da una tomba all’altra. (Oggetti e ricordi polverosi, ammuffiti). Trascini con te le tue rovine.
Lo shock di un impatto, di un incidente, di un trauma non è senza conseguenze: non lascia intatti il corpo e lo spirito. È qualcosa in effetti di molto ovvio, ma quando si tratta della nostra vita collettiva e individuale è anche qualcosa che facciamo presto a dimenticare, o di cui non teniamo conto. Stranamente.
Il fatto che, traumatizzati, non resistiamo come prima del colpo, ma siamo intontiti, rimaniamo storditi a ricevere altre mazzate. Questo stordimento può durare secondi o anni e decenni; intacca i nostri riflessi. La lucidità e la logica.
Attraversiamo un processo storico di stordimento.
Christian Caliandro
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