Pompei è l’autoritratto più efficace dell’identità collettiva italiana in questo momento: è lo specchio del nostro degrado, che riflette fedelmente quanto poco ci vogliamo bene. Ciò che potrebbe servire di più sarebbe forse proprio l’attuazione della (ventilata) procedura di cancellazione di Pompei dalla lista dei siti Unesco. Sarebbe uno shock salutare, l’occasione per rendersi finalmente e integralmente conto della gravità della situazione: un Paese che non riesce a garantire la minima conservazione, protezione e manutenzione del patrimonio ereditato dal proprio passato è un Paese che sta realmente mettendo in discussione il proprio futuro. Che si sta condannando all’impermanenza.
Riguardo al salvataggio di Pompei e degli altri (innumerevoli) siti archeologici in pericolo – così come di musei, biblioteche, cineteche ecc.: quest’anno per esempio ricorre il 50esimo anniversario di 8 e ½ di Fellini, uno dei film più importanti del cinema italiano (se non il più importante), e non è possibile celebrarlo degnamente perché in tutta la Penisola non esiste una sola copia proiettabile – occorre uscire finalmente dalla finta opposizione pubblico vs. privato: la gestione statale deve essere improntata a regole certe e metodologie aggiornate (siamo sempre convinti di dover essere originali “a tutti i costi”, di dover trovare soluzioni pazzesche impiegando magari il solito “genio italico”, quando basterebbe almeno per il momento seguire e adeguare i migliori esempi esteri?), affidata a professionalità accertate e non improvvisate; l’intervento dei privati deve avvenire entro una cornice in cui la giusta visibilità non può in nessun caso ledere il carattere “comune” del bene, né attraverso interventi (ad esempio restauri) troppo invasivi, né attraverso l’alterazione radicale delle modalità di fruizione del bene stesso.
Il problema è che da troppo tempo l’Italia è di fatto priva di una seria politica culturale (o, se è per questo, di un’idea coerente delle politiche culturali così come si configurano nel secondo decennio del XXI secolo). Le sfide che la crisi ci impone – che non possiamo eludere e che solo con la cultura possono essere realmente affrontate – richiederebbero infatti un grado molto alto di competenza, concretezza, sensibilità e perfino “gusto” da parte dei decisori e dei policy-makers a ogni livello (nazionale, regionale, comunale). Mi pare invece che le nostre strategie in campo culturale ancora oggi si presentino piuttosto come non-strategie, improntate a quella “cultura dell’emergenza” che rappresenta da anni e decenni uno dei nostri principali mali nazionali, e che porta con sé improvvisazione e approssimazione. Quasi mai si assiste a politiche complesse e articolate, in grado di incrociare per esempio in maniera virtuosa e feconda i territori “tematici”: patrimonio storico-artistico, produzione culturale contemporanea, innovazione, industrie culturali e creative. Nella maggior parte dei casi, siamo ancora invece al “marketing territoriale” declinato in varie salse: qualcosa che altrove è stato abbandonato da molto tempo.
Come ha detto di recente Giorgio Agamben, “gli europei incontrano sempre la verità nel dialogo con il proprio passato. Per noi il passato non significa solo un’eredità o una tradizione culturale, ma una condizione antropologica di fondo. Se ignorassimo la nostra storia potremmo solo penetrare nel nostro passato in maniera archeologica. Il passato diventerebbe per noi una forma di vita distinta. L’Europa ha una relazione speciale con le sue città, i suoi tesori artistici, i suoi paesaggi. In questo consiste l’Europa. E in questo risiede la sua sopravvivenza”.
Occorre dunque evitare che il passato, materiale e immateriale, sociale e culturale, diventi “per noi una forma di vita distinta”. Se questo famoso patrimonio non serve e non servirà – come è avvenuto in altre epoche della nostra vicenda – a ridefinire attivamente noi stessi, a riconfigurare la nostra identità, a costruire la memoria di chi siamo stati e soprattutto di chi potremo essere, ma se invece esso serve solo a trasformarci definitivamente nei custodi mesti delle tombe di famiglia, che coltivano l’illusione altrettanto mesta che l’operazione di “estrazione” degli spiccioli dalle tasche dei turisti sia in grado – da sola! – di invertire la rotta di un declino iniziato non cinque, ma cinquecento anni fa, beh, allora credo che accompagnare e persino incentivare il degrado e la rovina di questo patrimonio (senza più funzione, senza più dignità, senza più decoro, senza più serietà: senza più vita) possa rivelarsi un’idea tutto sommato sana. E soprattutto onesta. “Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri” (Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del Futurismo, 1909).
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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