Crediamo che l’Italia abbia più bisogno di carattere,
di sincerità, di apertezza, di serietà, che di intelligenza e di spirito.
Non è il cervello che manca, ma si pecca perché lo si adopra per
fini frivoli, volgari e bassi: per l’amore della notorietà e non della gloria,
per il tormento del guadagno o del lusso e non dell’esistenza,
per la frode voluttuosa e non per nutrire la mente.
Giuseppe Prezzolini, La nostra promessa
(“La Voce”, a. i, n. 2, 27 dicembre 1908)
Il dissenso e la dissidenza sono
quasi sempre lavoro per i giovani.
Tony Judt, Guasto è il mondo (2010)
In un momento come quello che stiamo attraversando, è come se dovessimo prepararci a una ricostruzione in stile dopoguerra – dunque, un’operazione, un lavoro collettivo, un assetto comune che richiede grande energia, volontà, determinazione, ostinazione. Abbiamo però a disposizione creature vecchie, stanche, ciniche (i protagonisti di Drive In e di Yuppies, mollicci, con trent’anni in più sulle spalle – anche quando da un punto di vista meramente anagrafico non dovrebbe essere così).
È per questo che scattano immediatamente le retoriche fallimentari, in ogni campo (compreso ovviamente quello culturale): la retorica della “ripresa”, per esempio. Della ripartenza: “ce la possiamo fare se facciamo così e così: basta volerlo”. Non è proprio così. Per scavalcare il divario tra pensiero e azione, tra finzione e realtà, tra illusione e trasformazione del mondo occorre fuoriuscire – una volta per tutte – dall’autocelebrazione e dall’autocommiserazione (due attitudini psichiche apparentemente opposte, ma che in Italia fanno il paio praticamente da sempre).
Non è sufficiente, dunque, agitare e brandire retoricamente le simbologie e le mitografie del boom nazionale (la Vespa, la 500, Fellini ecc.): anche perché, tra l’altro, si dimentica e si rimuove continuamente il fatto fondamentale che La dolce vita si fondava – come quasi tutte le opere significative e le proiezioni immaginarie del “miracolo” – sull’amarezza, sulla coscienza del fallimento, sul disincanto, sullo svelamento delle illusioni(individuali e collettive). Siamo invece entrati in un’epoca nuova, sdrucciolevole, in cui si desidera immediatamente accedere a contenuti materiali e psichici – la ripresa; il superamento della crisi; la ricostruzione del Paese; ecc. – senza praticamente farne davvero esperienza. Li si vuole fruire e consumare come spettacolo identitario, non costruire internamente. Si vuole accedere a essi, e li si vuole accettare, senza scoprirne e condividerne i presupposti mentali. (Impossibile.)
Occorre evitare di penetrare nostalgicamente l’intero immaginario dell’Italia passata che esercita una forza attrattiva così resistente e determinante nei confronti dell’esterno. Una specifica espressione facciale, una specifica reazione psichica, una specifica risposta emotiva che non sono affatto le stesse generate, che so, dalla Francia, dalla Germania, dalla Romania, dall’Inghilterra. È un universo culturale e narrativo che costituisce un sistema culturale a suo modo molto integrato e caratterizzato da una grandissima coerenza interna. Il potenziale evocativo di questo sistema è inversamente proporzionale al nostro attingere nostalgicamente ad esso. Va colato nel presente, e proiettato nel futuro dell’intero XXI secolo.
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Si delinea un mondo in cui i diritti si comprano (e non sono più, tecnicamente, diritti). Il diritto di fruire il patrimonio culturale, la propria stessa identità, viene così negato. (Per visitare le nostre chiese dobbiamo pagare: nostre non solo in quanto italiani, ma in quanto umani).
Si delinea un mondo in cui, dal momento che la critica è l’unico elemento irriducibile – e autenticamente radicale –, molto semplicemente essa è stata espulsa dai momenti di produzione e di fruizione culturale. Dal dibattito pubblico. Quanto più comodo se noi eradichiamo il fattore-critica dall’esperienza della cultura (vedere un film, leggere un libro, visitare una mostra: e formarsi un’opinione su questi oggetti)! Quanto più comodo per un’opera d’arte ridursi a bene stupido ma lussuoso!
Così, la critica – a tal punto fondamentale per la cultura da identificarsi praticamente con essa: non esiste infatti cultura che non sia critica – rapidamente nel corso dell’ultimo trentennio è divenuta di fatto un handicap, un ostacolo alla trasformazione neoliberista della realtà come costruzione culturale.
Christian Caliandro
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