Biennale d’Architettura di Venezia. Gli elementi fondamentali della rottura
Una riflessione sulla presentazione della 14. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia. Aspettative, rischi e speranze dettate dai “Fundamentals” di Rem Koolhaas.
Il rischio più grande che corre Rem Koolhaas, curatore della prossima Biennale di Venezia, è che la sua mostra alla fine si riveli solo una buona, anzi un’ottima Biennale. Sarebbe un troppo misero risultato per il progetto che ci ha illustrato nella sua conferenza stampa con il presidente Paolo Baratta, in streaming secondo la moda dei tempi. Dalle sue secche parole emerge che la mostra ambisce a essere una “Biennale di rottura”, forse la più importante di sempre, non solo nell’ambito dell’architettura, ma anche rispetto a quelle di Arte, Danza, Cinema e Teatro, che questa mostra ha l’ardire di voler racchiudere in sé nel percorso delle Corderie.
Gli elementi di novità sono molti: Koolhaas impone per la prima volta che la Biennale Architettura non duri tre, ma sei mesi, e per la prima volta anche i curatori dei padiglioni nazionali saranno chiamati tutti a rispondere a un argomento specifico lanciato dal direttore: Absorbing Modernity, 1914-2014.
Ma soprattutto il fondatore di OMA ci racconta in diretta, sugli schermi dei nostri computer, una Biennale per tutti, che invece di rintontirci con le visioni delle archistar definisca finalmente e una volta per tutte i “fondamentali” della materia partendo dagli Elements of Architecture nel padiglione centrale. E così le sgranate immagini dello streaming (che fanno somigliare tutto alla pornografia online) ci appaiono all’improvviso insufficienti a descrivere una mostra così densa, scatenando il desiderio di vederla meglio, come se fosse già iniziata: vorremmo essere lì.
Esiste un palese parallelo tra questa catalogazione degli elementi fondamentali dell’architettura e l’ansia enciclopedica dell’ultima Biennale d’Arte: come la mostra di Gioni aveva sdoganato l’ingresso ai Giardini e all’Arsenale di lavori di artisti non riconosciuti (dalla Storia o dal sistema), così probabilmente il padiglione centrale potrebbe essere caratterizzato dalla presenza di elementi non necessariamente autoriali.
Come Il Palazzo Enciclopedico si apriva con il Libro Rosso di Jung, così anche il percorso di Elements of Architecture è costantemente accompagnato dall’omonimo libro, un mattoncino – o una bibbia – anch’esso rosso o quasi, dall’aspetto molto simile a SMLXL, il libro di Koolhaas del 1995 che aveva l’ambizione di voler essere un dizionario, una piccola enciclopedia dell’architettura.
In realtà va detto che già due anni fa, nella mostra Civil Servants allestita da OMA/AMO all’interno della Biennale di David Chipperfield, Koolhaas era riuscito con grandissima abilità ad affrontare l’argomento del Common Ground, rinunciando a esporre i propri progetti di architettura. Utilizzando lo strumento della ricerca, e cioè lo stesso che è alla base di Fundamentals, la mostra riusciva a raccontare il filo che lega i progetti di alcuni architetti del passato, bravissimi ma sconosciuti perché impiegati negli uffici tecnici di vari Paesi. Il territorio comune a tutte quelle architetture gettava così un dubbio profondo sulla validità dello spietato sistema occidentale del “mercato della professione” e ne sottolineava quindi la crisi.
Questa è la grande abilità di Koolhaas: la capacità di utilizzare l’architettura per riflettere e descrivere la realtà. Se dieci anni fa Germano Celant, in occasione della sua mostra genovese del 2004, descriveva l’architettura iconica delle archistar come un Caleidoscopio, oggi per Koolhaas l’architettura è intesa come una lente per osservare il mondo che ci circonda, e in questo si rivela il senso della pretesa di Fundamentals di voler contenere in sé le altre Biennali e di scansionare tutto il nostro Paese dentro Monditalia all’Arsenale.
Dietro una così grande ambizione si cela in realtà un gesto di orgoglio e di amore per la materia, in un momento in cui, come ci dice lo stesso Koolhaas all’inizio del suo intervento in streaming, “l’architettura non gode di ottima forma”. La cura a questo male parte dalla ridefinizione dei suoi elementi fondamentali e quindi da una dieta, da una depurazione da quell’eccesso comunicativo che aveva reso l’architettura schiava dell’apparire e quindi autoreferenziale.
Se Koolhaas avrà successo e gli elementi di rottura della sua mostra saranno davvero così forti, dovremo allora chiederci se e come l’architettura stessa cambierà dopo la 14. Mostra Internazionale. Volendo essere più radicali, c’è un’altra domanda che a questo punto diventa interessante: può davvero una Biennale cambiare il percorso di una disciplina?
Viene alla mente la Biennale del 1964, nella quale Bob Rauschenberg vinse clamorosamente il gran premio per le arti. Da quel momento in poi, come dice Maurizio Calvesi, tutte le successive ricerche si basarono su un principio di sconfinamento dalla pittura; in quel caso la rottura con il passato fu innescata da un padiglione nazionale (quello degli Usa), ma comunque dopo quella Biennale l’arte cambiò e non fu più la stessa.
È impossibile prevedere se effettivamente Fundamentals avrà esiti così dirompenti, ma bisogna dire che con questi presupposti Rem Koolhaas ce la può fare.
Francesco Napolitano
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