Chi abbocca a Lars Von Trier? Abbiamo visto Nymphomaniac
Debutta giovedì 3 aprile nelle sale italiane “Nymphomaniac”, il lungo “Heimat” del sesso firmato Lars Von Trier, che racconta dell’eroina Charlotte Gainsbourg in caduta libera nell’abisso della ninfomania. Il regista danese ancora una volta pretende l’attenzione del pubblico e della critica, orchestrando lo scandalo e cercando di scalfire il torpore degli spettatori. Ci è davvero riuscito?
Chi ha già avuto modo di vedere Nymphomaniac Vol. 1 e 2 senza attendere l’ormai incomprensibile e anacronistica versione italiana (in ritardo, doppiata, forse decurtata e quant’altro), distribuita dal 3 aprile nelle sale per Good Films, da mesi ormai si è fatto un’idea di cosa l’intera operazione rappresenti.
Per fare un veloce riepilogo: Lars von Trier ha girato un film a tratti molto esplicito sulle confessioni di una ninfomane non pentita, interpretata da una delle attrici-feticcio del regista, la francese Charlotte Gainsbourg. Nei mesi che hanno preceduto la première, il regista ha orchestrato la consueta e sapiente strategia di comunicazione, anticipando l’esistenza di due versioni della pellicola, una “softcore” e una “hardcore”, alimentando l’hype con una serie di poster dalla fotografia super-patinata ritraenti i molti protagonisti (tutte star di Hollywood) all’apice dell’orgasmo, simulato.
Nelle quattro ore suddivise nei due volumi di Nymphomaniac (la versione ‘uncut’ durerà cinque ore e mezza) incontriamo la protagonista Joe (Charlotte Gainsbourg) che giace malmenata in un vicolo scialbo dall’aspetto teatrale e verrà soccorsa e ospitata in un altrettanto umile stanza da un uomo di mezz’età, Seligman (Stellan Skarsgård), una sorta di asceta intellettuale che si proclama vergine e che sarà per tutto il lungo sviluppo del film il confessore di Joe e della sua lunga traversata nel sesso, cominciata per lei a tre anni e scandita da innumerevoli esperienze attraverso le quali Joe sembra autodistruggersi consapevolmente e con un certo orgoglio.
Si potrebbe ripercorrere e sintetizzare la “trama” di Nymphomaniac senza tuttavia ricavarne chissà che cosa: la bulimia sessuale della protagonista viene rivissuta attraverso i capitoli-flashback ai quali Von Trier addossa un farraginoso simbolismo che comprende la zoologia, la botanica, la sezione aurea, la serie di Fibonacci, la musica di Beethoven e Shostakovich, l’iconografia religiosa (che pare qui frettolosamente rastrellata da Wikipedia) e infine la metafora della pesca a mosca.
Prendendo in prestito quest’ultima immagine, viene perciò da chiedersi quanto il pubblico di Von Trier sia disposto e disponibile ad abboccare a questa ennesima trappola tesa dal regista. Il sesso è evidentemente ancora un vettore fortissimo per veicolare i desideri del pubblico e per alimentare clamori, fraintendimenti e tensioni. Tutti elementi da sempre ricorrenti nel personaggio di Von Trier che da Gli Idioti (1998) ad Antichrist (2009), alle sparate misogine e agli endorsement nazi è lieto di essere discusso e attaccato. Ma quanto dobbiamo prendere sul serio Nymphomaniac? Dal canto suo, Von Trier sembra prendersi estremamente sul serio, ribadendolo in film come in Antichrist in cui la protagonista (sempre Charlotte Gainsbourg) lavorava a una tesi sul genocidio e nei titoli di coda venivano accreditati ricercatori su temi quali ‘ansia’, ‘mitologia e male’ e ‘teologia’.
È lecito pensare che anche per Nymphomaniac Von Trier abbia studiato a fondo l’argomento. Ma quanto di quel fitto reticolo di citazioni, spunti e tesi è organico a restituire una visione sul tema? E quanto la forma del film e gli elementi visivi sono appropriati e motivati?
Chiunque abbia letto per esempio il racconto autobiografico di Catherine Millet La vita sessuale di Chaterine M. (2002) troverà nel racconto di Joe una pallida versione di quella coazione a ripetere l’atto sessuale espresso e ribadito dalla critica d’arte francese. E non è improprio il confronto con un testo scritto poiché è ricorrente se non strutturale nella filmografia di Von Trier la necessità di stabilire delle regole, una grammatica, suddividere il testo cinematografico in capitoli, volumi, trittici (Nyphomaniac è l’ultimo capitolo della trilogia della Depressione, preceduta dalle trilogie Europa, Cuore d’Oro e l’incompleta USA: land of opportunity). La numerazione di ogni elemento è del resto alla base della letteratura erotica, a partire da Sade, analizzato puntualmente sotto questo aspetto da Barthes, Bataille, Focault per citarne alcuni. La numerologia è perciò una delle chiavi per interpretare questo mistero del sesso, e nel film Seligman utilizza anche questo strumento per interpretare un’esperienza che non conosce. Eppure nel film tutto ciò è sublimato in modo arbitrario, schematico se non grottesco e involontariamente comico: la conta delle penetrazioni da davanti e dietro di Jerome (Shia LaBeouf), primo amante di Joe, viene visualizzato con cifre sovraimpresse “5+3”, totalmente gratuito.
Ovviamente al regista non importa l’aspetto solare e vitale della sessualità, quanto l’aspetto degenerativo e le derive cliniche del fenomeno. Siamo sì ancora nella trilogia della Depressione iniziata con Antichrist e Melancholia e nuovamente la donna per il regista rappresenta il male, l’elemento caotico che obnubila e distrugge la mente maschile. Eppure molti critici sono andati in visibilio nel sottolineare lo spirito rivoluzionario e femminista di Joe, soprattutto per il club di accolite ninfette chiamato “il piccolo gregge” e per il loro motto “Mea vulva, mea maxima vulva” (sic). E certo, forse c’è qualcosa di rivoluzionario nella sistematica distruzione del concetto di famiglia da parte di Joe, ma pochi critici hanno notato come, analogamente ad Antichrist, la donna/Gainsbourg nuovamente si sta rendendo responsabile (con la stessa modalità) della morte del figlioletto, qui salvato appena in tempo da Jerome. Non sarà questa la dimostrazione della misoginia del quale il regista viene accusato, ma certamente è un’ennesima rappresentazione della donna come dea sterminatrice.
C’è poi l’aspetto visivo, figurativo e formale del sesso, che senza dubbio rappresenta il colore principale e prominente di Nymphomaniac. In questo senso il dibattito e il caso montato ad arte si reggono su consuete polarità tra lecito e illecito, concesso e censurato, e tra l’antico quanto sterile dibattito tra arte e pornografia. Viene da chiedersi cosa ci sia di così osceno in una pellicola, senza dubbio non mainstream, in un’epoca in cui qualunque minorenne può facilmente accedere a materiale propriamente pornografico ben oltre a quello contenuto in Nymphomaniac. Tuttavia attorno a questo cardine il film ha costruito finora la sua identità più pop. Vulve, peni, orifizi, un repertorio piuttosto classico di amplessi e di pratiche sadomaso danno stancamente ritmo alla pellicola, senza aggiungere nulla alla galleria del già visto in medesimi prodotti.
Si registra qui la più grande contraddizione e il passaggio artistico-intellettuale più disonesto di tutta l’operazione: i rumors attorno al film ovviamente amplificavano di molto il portato scandaloso della pellicola e per esempio Shia LaBeouf, Aka Mr. Transformer, e il suo agente ci tennero molto a raccontare come, per assicurarsi un ruolo in Nymphomaniac, dopo che il regista gli chiese delle foto del pene, si fosse prodigato a inviargli un sex-tape con la sua fidanzata. Analogamente, in decine d’interviste la Gainsbourg ha più volte raccontato di come le scene di sesso fossero state condotte con estrema naturalezza e senza imbarazzo. Fa perciò una certa pena leggere proprio alla fine dei titoli di coda un disclaimer che ci informa: “Nessuno degli attori professionisti ha avuto delle reali penetrazioni, tali scene sono state effettuate da controfigure” e facendo una rapida ricerca in rete scopriamo che non solo tali genitali non appartengono ai relativi divi ma sono stati composti e riassemblati digitalmente per ottenere tale effetto di realismo.
Torna alla mente il 20 marzo del 1995 quando all’Odéon di Parigi durante un convegno il giovane Von Trier lesse per la prima volta il “Voto di castità” di Dogme 95, dopo un attacco alla Nouvelle Vague che avrebbe a suo modo di vedere tradito il pubblico riproponendo un’idea di cinema borghese e illusoria.
Da allora, nei suoi molti proclami goliardici, esagerati, ossessivi per la riforma di un cinema “eterosessuale”, Von Trier ci ha abituato a continui paradossi che ondeggiano tra kitsch e sublime (come nel bellissimo Le cinque variazioni, con Jørgen Leth) e non vi è dubbio che c’è del mestiere nella furba quanto cosciente operazione di comunicazione, per certi versi straordinaria, che di fatto permise a Von Trier di conquistare l’attenzione internazionale e trasformare il cinema scandinavo in una fenomeno di moda e di massa come analogamente, su altri fronti, stava accadendo con Ikea e H&M.
Sembra un’iperbole, eppure se si torna ad analizzare l’influenza dello “stile” Dogma nei grandi formati cinematografici e televisivi, non è difficile accorgersi di quanto davvero il segno di Von Trier sia stato il modello centrale per ridefinire il concetto di cinema d’autore durante la seconda metà degli Anni Novanta soprattutto a Hollywood.
Proprio per questo, da Hollywood continuano a susseguirsi superstar fan del regista, disposte a lavorare con lui, amanti della sua tanto declamata radicalità, ma correndo ai ripari del trucco digitale quando si tratta di performance poco puritane. A questo proposito un encomio va agli attori protagonisti e reali performer sessuali di 9 Songs (2004) dell’inglese Michael Winterbottom, forse dimenticato ma contrariamente a Nymphomaniac esemplare per realismo e audacia.
Lars Von Trier è conscio del fatto che i suoi film possono esistere oggi solo se interpretati da volti noti del cinema e della scena artsy-glamour, questo però è in aperta contraddizione con i principi da lui fondati, e sempre per ritornare sul tema della nudità c’è da rilevare uno spiacevole approccio razzista alla disciplina dello sguardo nel siparietto tristemente già diventato celebre dei due amanti africani di Joe che interrompono il loro amplesso per discutere sulla posizione da assumere per prendere la protagonista. Ebbene, nelle quattro ore di Nymphomaniac, le uniche erezioni “reali” che vediamo sono quelle di due attori neri e anonimi. Si ripropone così il problema perfettamente espresso da Nicholas Mirzoeff nel capitolo “Vedere il sesso” del suo importante Introduzione alla cultura visuale (2002), di una prospettiva razziale delle immagini in cui si insiste ancora nel porre il naturale/non occidentale in opposizione al culturale/occidentale, laddove gli attori bianchi, famosi come si è detto, proteggano la propria identità rivestendo digitalmente i loro sessi.
Rimane però una qualità che va indubbiamente riconosciuta al regista danese, quella di saper dirigere i propri attori con uno stile non ortodosso e talvolta imprevedibile (basti pensare alla scena con Uma Thurman), retaggio questo dell’intensa stagione sperimentale che precedette il lavoro di Von Trier prima del ’95. Così il monaco-filosofo Seligman, nell’allucinata e potente interpretazione di Stellan Skarsgård, sembra suggerirci che il sesso per “dirsi” ha bisogno di essere interpretato, decriptato, letto e riletto, ma che infine lo iato tra intelletto e l’anarchia del sesso rimane incolmabile e, come nella rara iconografia di Aristotele cavalcato dalla giovane Fillide, anche il parco Seligman perderà il senno.
Ma saranno sufficientemente sedotti e fedeli i fan di Lars Von Trier da aspettare il secondo volume e, ancora di più, la ventilata director’s cut per assistere all’epilogo della storia di Joe? Nel frattempo quel che è certo è che il film ha già incontrato preventivamente i favori del pubblico hipster, che non mancherà di fare di Nymphomaniac un cult a tempo determinato.
Riccardo Conti
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